martedì 23 settembre 2025

Il posto del Saja

C’è un termine, nel romanzo di Richard Adams La Collina dei Conigli, che descrive l’immobilità che caratterizza gli animali da preda di fronte a un pericolo soverchiante: è tzarn (tharn in originale), ed è un modo molto efficace per rappresentare la paralisi che molti stanno vivendo di fronte agli abusi perpetrati in piena luce a danno di popoli, gruppi, singole persone.

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Uno dei primissimi Lostbooks

Ci sono poteri all’opera che compiono e dicono cose palesemente, sproporzionatamente malvage – con l’arroganza dell’impunità e della consapevolezza di poter fare le cose because I can. Di fronte a questi poteri, di fronte a questa sproporzione di forze, le strade sono tre: flight (fuggire), fight (combattere), freeze (rimanere tzarn, appunto). Tenuto conto che non c’è posto dove rifugiarsi, resistere (anche in modo non violento) per non piegarsi comporta l’essere prima o poi spezzati, il congelarsi è una strategia che molti stanno, magari inconsciamente, adottando. Come sciogliersi da questa paralisi? Jianwei Xun, il filosofo dell’ipnocrazia, in un recente articolo per Tlon ipotizza la strada della parresìa, declinata come il coraggio di dire la verità in condizioni di pericolo. Verità come atto politico, non come arma dialettica piegabile a interessi di parte.

Quale verità possiamo dire noi oggi, che parresìa possiamo praticare, nei limiti di una tribuna così ristretta? Una cosa si può fare: mostrare come quest’epoca disperata stia vedendo la manifestazione nel mondo reale di archetipi antichissimi e profondissimi, quasi dei fantasmi che filtrano nella realtà. “Immaginari o finzioni pretendenti al reale”, cioè fantasmi (per usare una citazione del libro di Avery Gordon linkato nell’ultimo post), che riescono a passare di qua.

Non è un caso che il film più visto sulla piattaforma con la N rossa sia un prodotto di animazione che narra lo scontro, nella realtà contemporanea, di veri e propri demoni con delle cacciatrici – eredi in questa generazione della missione di proteggere l’umanità dalla distruzione tramite suzione dell’anima.

La reunion di Lost che nessuno si aspettava

Lungi dall’essere un prodotto meramente commerciale (e commerciale lo è: si fa fatica a immaginare un musical di animazione più perfettamente confezionato di questo), KPop Demon Hunters ha diversi livelli di lettura, molti dei quali con riferimenti alla mitologia e al folklore coreano, su cui molto è stato ottimamente scritto da Marta Corato su IGN.

Demoni che camminano tra noi, mitologia in atto: è questo forse lo zeitgeist corrente?

Spostandosi in India, e in una nicchia cinematografica distante molte caste da Netflix, c’è un interessantissimo film, che apparentemente parla di vampiri, Sister Midnight, che descrive la progressiva trasformazione di una neosposa, destinata alla cura dell’ambiente domestico a Mumbai, in una figura di mostruoso femminile che uccide e succhia il sangue degli animali (incluso il marito), che poi ritornano in vita (in stop motion, tranne il marito). Questo sarebbe un grosso spoiler, perché la trasformazione avviene il parallelo ad un radicale cambio di genere del film, analogo (sebbene non così brusco) a quanto avviene in Dal tramonto all’alba. Ma qui cerchiamo di ricondurre anche questo film alla tesi complessiva e lo spoiler è necessario.

Siamo in pieno Kali-Yuga

Senza sapere nulla di induismo – e senza scorrere magari questa lettura indiana della pellicola – allo spettatore occidentale sfuggirebbe la natura mitologico-religiosa della narrazione, che è (da mille indizi) quella della manifestazione di Kalì in una persona destinata socialmente ad incarnare Parvati. Anche qui, dèi che si manifestano nel mondo reale, archetipi che sovvertono l’ordine sociale.

C’è un romanzo del 1931, Il Posto del Leone, che narra proprio di questa manifestazione e di questo sovvertimento. Ne è autore Charles Williams, noto anche come il ‘terzo’ degli Inklings (i primi due sono J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis), e forse il più eterodosso dei tre. Il romanzo, che parla dell’apparizione letterale in un villaggio inglese delle Idee platoniche che vogliono riprendersi il mondo dei fenomeni, e delle conseguenze che l’umanità deve affrontare, colpì particolarmente Lewis, che scrisse ad Arthur Greaves: “Ho appena finito di leggere un libro che mi appare veramente superbo”.

Il Leone del titolo è l'archetipo della Forza, ma nella cultura coreana i caratteri che corrispondono alla parola leone (사자, saja) appaiono anche nel nome di coloro che accompagnano le anime dei defunti nell'aldilà (저승사자, jeoseung saja).

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The original #veNERDìpub

Scriviamo queste righe alla vigilia dell’ultimo saluto a un caro amico, con il quale abbiamo trascorso innumerevoli ore in un pub (in diversi pub, in effetti) a parlare di letteratura fantastica (e di cinema e tv, e non solo di quello), novelli Inklings che sognavano di essere al Bird & Baby – e per tanto tempo è stato come se ci fossimo. Chi scrive si sente un po’ come Tolkien alla dipartita di Lewis, come se avesse ricevuto “un colpo d’ascia vicino alle radici”.

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Lettera a Priscilla Tolkien

Questo post è dedicato a Paolo, alias Glorfindel, con la speranza di rivederci al di là del mare.

venerdì 19 settembre 2025

I fiori non sono i gufi che sembrano

Viviamo una fase storica nella quale i fantasmi camminano fra noi e si riproducono con rapidità agghiacciante. I fantasmi di violenze passate rivivono e si moltiplicano negli abusi presenti, per infestare il nostro futuro in un modo che non riusciamo a immaginare.

Haunting è la parola chiave: come una casa infestata, il mondo gronda di sofferenza passata e si avvita su sé stesso in un circolo vizioso (di più, dannato) di terrore e violenza, che sprofonda sempre di più verso l’inferno – trasformando in inferno permanente l’aldiquà.

Sta succedendo di nuovo. E continuerà a succedere

Non è un caso (non è mai un caso) allora che chi scrive abbia proprio in questi giorni letto (e visto la trasposizione televisiva di) un romanzo del 1967 che passa per letteratura fantastica per ragazzi, ma che è leggibile a più livelli, tutti piuttosto adulti. Si tratta di The Owl Service, di Alan Garner, mai tradotto in Italia (ma magari Agenzia Alcatraz vorrà farci un pensierino, vista anche la recente scelta di pubblicare per la prima volta un classico folk horror) e reso una serie di otto episodi nel 1969-70 da Granada Television.

The Owl Service è la storia di tre giovani (Alison, il suo fratellastro Roger, e il figlio della governante, Gwyn) in vacanza in una valle del Galles assieme al padre di lui, alla madre di lei, a detta governante e a un bizzarro giardiniere – che poi sono praticamente tutti i personaggi che appaiono nella storia. Anzi, nemmeno tutti, perché – per una scelta di sceneggiatura straniante se non proprio inquietante – la madre di Alison non si vede né si sente mai (quindi non c’è un’attrice per lei tra i credits della serie). A onor del vero, la scelta televisiva è coerente con la lettera del romanzo, nel quale le azioni e le parole di costei sono sempre riferite e mai protagoniste della scena (mai un suo discorso diretto, per capirci).

I tre giovani (adolescenti nel romanzo, un po’ più grandi nella versione televisiva) si trovano a rivivere le vicende di tre personaggi del quarto ramo del Mabinogion (testo mitologico gallese), che nella stessa valle in cui loro villeggiano intrecciarono una tragica storia di amore, tradimento e morte. I tre personaggi, Blodeuwedd, Llew e Gronw, vengono in qualche modo evocati da un servizio di piatti a tema floreale, ma avviluppato in immagini stilizzate di gufi (l’owl service del titolo), che qualcuno ha nascosto in soffitta e che preme, graffia, scalpita per uscire. E che qualcuno libera.

The Owl Service plate
L’originale

L’infestazione progressiva dei tre personaggi mitologici nei tre giovani si sviluppa in parallelo a dinamiche familiari e sociali decisamente impegnative: il romanzo (ma soprattutto la serie televisiva, che comunque dobbiamo alla stessa penna di Alan Garner) parla di rapporti e impermeabilità di classe, di genere ed emancipazione femminile, finanche di sessualità adolescenziale. Tanto che gli autori di Scarred for Life si chiedono legittimamente che reazioni possa aver suscitato una serie così nelle famiglie inglesi raccolte davanti alla tv alle cinque e mezza della domenica pomeriggio.

I tre protagonisti - che vestono sistematicamente di rosso (fin nella biancheria intima, sic) Alison, di verde Roger e di blu Gwyn (sebbene gwyn in gallese voglia dire bianco. Lo sappiamo perché stiamo studiando gallese su Duolingo, che ha un gufo per brand) – non sono i primi a canalizzare i personaggi mitologici di quella valle: si scoprirà che anche la governante, il giardiniere e uno zio di Alison sono stati avvinti in passato nelle spire della stessa tragica infestazione, e che l’aver riportato alla natura floreale Alison non impedirà alla storia di ripetersi.

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In rosso, non a caso, Gufetta

Al di là del fascino che una storia del genere emana, come tutte le narrazioni mitologiche The Owl Service presenta archetipi umani e dinamiche altrettanto archetipiche delle loro relazioni. I giovani di questa storia, lungi dall’essere stereotipi, sono persone, nel senso etimologico del termine: maschere di potenze universali. La natura circolare dell’infestazione non ci rassicura affatto: sebbene qualcuno riesca a spezzare una catena (di eventi, di rapporti di potere, di stereotipi) e finalmente fiorire, i fantasmi (della paura e della violenza) torneranno a colpire.

giovedì 1 maggio 2025

Uso e abuso della vulnerabilità











La sensazione di delusione era palpabile, alla fine: con altre persone, in fila alla toilette (trascurando ovviamente la distinzione dei bagni tra uomini e donne), ci si diceva che l’evento era stato un’occasione irripetibile (e pertanto meritevole di viaggi anche lunghi per esserci) ma sostanzialmente persa. Dialogo c’è stato, tra due giganti del pensiero della differenza, ma è sfociato in una polarizzazione che non era chiaramente nelle intenzioni di chi lo ha voluto e organizzato, una polarizzazione – ci dicevamo nello sconforto comune – figlia dei tempi. Quindi questo incontro, più che rientrare nelle usuratissime categorie di importanza e necessità, è risultato epocale.

È stato un dialogo che – soprattutto nella conclusione un po’ brusca e frettolosa – ha risposto chiaramente alla domanda che Lorenzo Bernini ha posto proprio in dirittura d’arrivo, e sintetizzabile con: Dove abbiamo sbagliato? Dove hanno sbagliato il pensiero femminista e l’attivismo LGBTQIA+, se – pur tra le indubbie conquiste – hanno lasciato campo libero alla reazione, al conservatorismo più retrivo, al ritorno in auge dell’autoritarismo patriarcale?

L’errore si è reso palese nella polarizzazione all’interno di un fronte che – pur nelle differenze, che sono da valorizzare – doveva essere unito e che invece si è lasciato penetrare (non usiamo a caso il termine) da un potere che non ammette (e nel confrontarsi con il mondo non ha) la minima crepa nella sua monolitica (parmenidea e/o hegeliana) interezza.

Il tema del confronto era unificante: la vulnerabilità è tratto comune tra le varie anime del pensiero della differenza, sessuale e di genere. Ma tra le voci presenti, quella che ha usato delle vulnerabilità dell’interlocutrice a proprio vantaggio è stata quella di Judith Butler, che ha, nell’ordine

  • lamentato il fatto che non le era stato detto di preparare un intervento
  • sostenuto di vedere paura e rabbia nell’intervento di Adriana Cavarero
  • assecondato quello che si è rivelato essere il proprio pubblico, sempre più rumoroso sugli interventi altrui
  • preteso di insegnare con condiscendenza alle (ormai) controparti italiane ad accogliere il contraddittorio del pubblico
  • chiuso di fatto l’incontro con un bacio a Cavarero, mostrando una benevolenza top-down tutt’altro che accogliente.












Non sono mancati errori anche da parte italiana, beninteso: al di là di qualche fatica organizzativa (nell’accoglienza di una folla da concerto) e dei sottotitoli automatici che – tra un fastidioso maschile sovraesteso e fraintendimenti che potevano anche essere divertenti – sono stati progressivamente sempre più cringe, uno dei problemi principali è stato l’aver sottolineato – da parte di Adriana Cavarero, forse scottata dal francamente irritante recente confronto a Fahrenheit con Rosi Braidotti – il fatto che la definizione di donna, i diritti delle persone trans e le conseguenti polemiche che dominano il dibattito pubblico contemporaneo non fossero a tema del meeting. La chiusa del suo intervento iniziale è suonata come excusatio non petita, ha triggerato la parte di pubblico più attiva in ambito LGBTQIA+ e ha dirottato la discussione verso la polarizzazione che non si voleva.

Quindi a poco è servito il ‘disclaimer unificante’, se quella parte di pubblico (insieme agli schiocchi di dita in apprezzamento per Butler) ha utilizzato modalità progressivamente più vocal in reazione agli interventi di Cavarero (e di Olivia Guaraldo), accentuando e non smorzando la tensione.

Si potrebbe obiettare che organizzare un evento operistico che prevedesse la presenza contemporanea sul palco di Maria Callas e Renata Tebaldi non sarebbe stata – in nessun universo – una buona idea, soprattutto a causa dei rispettivi pubblici, ma questo tra Butler e Cavarero non doveva essere uno scontro, un duello, un contest di qualsivoglia genere – ma stava per finire come un regolamento di conti tra fazioni rivali di uno stesso fronte e ha confermato i motivi (almeno tattici) per cui quello che di recente Naomi Klein ha definito end times fascism (il fascismo della fine dei tempi, sic) sia trionfante in ogni parte del mondo.

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