venerdì 27 marzo 2020

Rispolverare la lavagna...

Prima che qualche giorno fa Faramir "rispolverasse" la nostra Lavagna, aggiornandola di nuovi contenuti, un po' come si fa a scuola tra un'ora e l'altra per permettere l'avvio di una nuova lezione, si potevano leggere, ormai più di un lustro fa, su questa bacheca post centrati sul dibattito intorno al finale di Lost, in particolare sulla deriva che ne aveva preso la scrittura.



Oggi, dunque, grazie a Faramir, diventa assai stimolante ritornare a riflettere su ciò che in fondo (seppur nel passare delle stagioni televisive con inaccettabili tradimenti da parte degli sceneggiatori e di abbandoni delusi da parte di più di qualche fan) tanto ci aveva conquistato, entusiasmato, illuso e... e poi aggiungete il vostro aggettivo preferito legato al campo semantico del sogno.

clicca qui se vuoi ripercorrere la vicenda


Tali sfolgoranti premesse che, seppur in modo contraddittorio ci hanno condotto per mano fino alla sesta stagione e al suo finale visionario, permettendo così agli sceneggiatori di spaziare dalle sublimi vette di puntate memorabili su amore e spazio tempo a digressioni francamente inutili su tatuaggi e fenomeni paranormali, sono così riassumibili: creare una comunità è una necessità umana, sia per sopravvivere nella vita terrena che per vivere oltre la morte. E senza una vera cooperazione tra tutti non è possibile farlo, altrimenti vivere insieme senza una vera consapevolezza della comunità ci farà ineluttabilmente solo morire da soli.



Il 23 maggio 2010 andò in onda in contemporanea mondiale l'ultima puntata di Lost. A dieci anni di distanza mi ritrovo a rispolverare la lavagna...


... per ritornare a riflettere (il nostro pensiero) e soprattutto a scegliere come declinare concretamente (le nostre azioni) la nostra idea di cooperazione... in giornate come queste non mi sembra poca cosa...



... per vivere insieme e non morire da soli...



... l'aula è (ri)aperta a tutti.


giovedì 26 marzo 2020

A notebook from the Pearl Station


Quello che stiamo osservando nei comportamenti delle persone durante il lockdown – il tutto mediato da schermi, come se fossimo nella Stazione Perla – è significativo dell’epoca che abbiamo vissuto finora e che sta rapidamente volgendo al termine. Sovrastimolata e eccitata da anni da una quantità non gestibile di informazioni, la mente umana – quella di ciascuno e quella collettiva – si ritrova di fronte ad un abbassamento forzato del ritmo, alla prospettiva deprimente di non poter più correre come il sistema le ha imposto di fare*, alla frustrazione di non poter (illudersi di) controllare tutte le istanze della propria vita privata/lavorativa/comunitaria. Si ritrova, in altri termini, di fronte a quella che Bifo Berardi chiama psicodeflazione. E allora cerca in tutti i modi di tenersi impegnata, riproducendo a livello domestico i ritmi e la struttura multitasking della sua vita pre-lockdown.
Già abbiamo detto di smart-working e videochiamate, ma riflettiamo su quanto sia aumentata la produzione e diffusione di meme, opinioni, audio e video virali, bufale e fake news in questi giorni. Un numero spropositato di persone ha più tempo da riempire, con gli unici canali di comunicazione con l’esterno basati su internet. Quindi alla sovrastimolazione informativa e alla minaccia di psicodeflazione reagisce con una sovrapproduzione di contenuti (propri o altrui, poco importa) per far sapere al mondo che esiste.


Questa sovrapproduzione viene accompagnata dall’illusione di rendersi utile alla propria comunità, illusione che nel fate girare trova la sua locuzione-chiave: non essendo istituzioni riconosciute, i singoli vogliono essere utili diffondendo informazioni che paiono tali, ma senza verificarle, perché l’attention span si è troppo abbassato e si è persa la capacità di una verifica delle fonti che non sia – quando va bene – superficiale. Quindi è sufficiente che il contenuto pervenga da una fonte conosciuta e apprezzata perché possa essere rilanciato senza ulteriori controlli: è il confirmation bias come regola.
Se prima del lockdown le persone avevano meno tempo, venivano quindi bersagliate da meno informazioni, e – pur affette da confirmation bias (tutti lo siamo) – potevano contrastarlo, oggi lo stesso confirmation bias è divenuto endemico, grazie alla fretta di condividere informazioni, attraverso cui sentirsi impegnati e utili.
Ad aggravare il fenomeno c’è anche la tendenza a voler essere non solo impegnati e utili, ma anche voci critiche e argute – in parole molto povere, a volersi dimostrare più furbi degli altri: probabilmente questa è una tendenza solo italiana, ma la rete è invasa da dubitatori in servizio permanente effettivo, che – all’insegna del non ne parla nessuno – generano contenuti apparentemente controcorrente, originali e stimolanti una riflessione critica, ma che riproducono spesso il complottismo più becero e dannoso.
È evidente che qualcuno può agevolmente cercare di avvantaggiarsi di questo meccanismo, sia per monetizzare questa aumentata propensione ad abboccare al click-bait, sia per consolidare o recuperare posizioni nel consenso popolare, in barba a qualunque senso civico (o responsabilità personale, a dirla tutta). È possibile sperare che questa forma di sciacallaggio abbia vita ancora breve, senza dubbio, ma il trend di esasperazione dei rapporti personali e sociali è crescente, e non è detto che abbia miglior gioco chi lo cavalca, invece di chi cerca di smorzarlo, magari ammettendo i propri errori di valutazione iniziale.


È un luogo comune che nelle crisi le persone diano il meglio e il peggio di sé: l’estremizzazione delle caratteristiche personali – positive e negative – è in effetti osservabile nelle situazioni al limite. Osservarla in prossimità del limite strutturale della capacità cognitiva della mente individuale e collettiva fa ancora più impressione. Come farà impressione, alla fine di questa vicenda, all’alba del mondo che ne emergerà, il cimitero dei nostri post – vani come i quaderni della Stazione Perla ammassati a valle della posta pneumatica dell’Isola, guardati dai losties.


* Naturalmente non tutti siamo costretti in casa, molti sono costretti fuori – chi perché impegnato a livello sanitario nell’arginare l’emergenza, chi perché ancora operativo in settori produttivi ritenuti essenziali per l’economia. E per queste persone – che magari vorrebbero restare a casa, almeno per un po’ – vale tutt’altro discorso, perché sottoposti a stress di altra natura: non è questo il tema dei nostri appunti.


lunedì 16 marzo 2020

Memories from the Hatch

Se ci avessero detto, quindici anni fa, che per giorni e giorni (e senza una prospettiva chiara sul per quanto tempo) avremmo dovuto fare la vita di Desmond, probabilmente avremmo riso. Non rientrava nel nostro orizzonte una crisi globale tale da cambiare davvero le nostre abitudini di vita – addirittura, non si poteva immaginare che l’unico modo per superare una tale crisi fosse rinunciare al testardo attaccamento alle quotidiane abitudini consolidate. Del resto, che cosa faceva Desmond per trascorrere le sue giornate interminabili nella Stazione Cigno? Proseguiva attività fisiche e intellettuali come se fosse tutto normale – e inseriva numeri su una tastiera, sempre gli stessi, sempre ogni 108 minuti, come se fosse fondamentale per la sopravvivenza della specie umana.


Da allora, una crisi globale c’è stata, eppure il sistema ha fatto in modo che ne uscissimo aumentando l’intensità del nostro impegno lavorativo e comunicativo, abbassando la prevedibilità dei nostri ritmi produttivi (qualcuno direbbe precarizzando ogni forma di lavoro), erodendo il tempo libero e lo spazio dedicato davvero alla vita privata in nome del work-life balance (di fatto, estendendo il tempo-lavoro a tutta la giornata solare), imponendoci di essere a disposizione sempre e comunque per cogliere le occasioni lavorative, facendo di tutti i lavoratori (anche quelli che imprenditori non sono mai stati e non vogliono esserlo) degli imprenditori di se stessi (abusando peraltro di un concetto nobile della cooperazione). In questo, un ruolo-chiave lo hanno avuto i social network, che – lungi dall’essere un sistema di comunicazione puramente conviviale – si sono evoluti in arene per il personal branding, creando l’illusione che tutti possano essere influencer e quindi essere seguiti con interesse da qualcuno per cui creare valore aggiunto. Il quarto d’ora di celebrità di Andy Warhol si è rapidamente ridotto ai pochi secondi di un video di TikTok, coerentemente con il calo dell’attention span delle generazioni attive sui social – correlato, a parere di chi scrive, con l’endemicità dei disturbi dell’attenzione.
Si tratta del processo più rapido e incisivo di privatizzazione che si sia mai visto: Mark Fisher – non a caso suicida nel 2017 – parla di privatizzazione dello stress, perché lascia l’individuo solo con le sue preoccupazioni, angosce, delusioni (#maiunagioia), speranze continuamente disattese (come uno scommettitore incallito), abbandonato anche da un welfare che, se non può più essere di Stato, non riesce nemmeno ad essere comunitario. Sicuramente nel Regno Unito e negli Stati Uniti questa deriva è più antica (i danni del thatcherismo si sono accentuati e non certo attenuati nei quarant’anni ormai trascorsi, e il trumpismo non ne è che il succedaneo involgarito), ma se guardiamo all’Italia – in cui fino a nuovo ordine alcuni diritti sono ancora tali – l’evoluzione del welfare in piattaforme, possibilmente online, di incontro di domanda e offerta non è altro che la trasformazione del sistema di interventi e servizi sociali in un mercato letteralmente neoliberista.
Pertanto, tutto il mondo che è uscito dalla crisi finanziaria del 2008-09 è un mondo ancora più capitalista – nonostante la crisi sia stata la manifestazione più chiara degli errori e dei falsi miti del capitalismo – un mondo che simula felicità, attivismo ed entusiasmo per la miriade di possibilità che ci offre il capitalismo delle reti e delle piattaforme, grazie a quella sorta di programmazione neurolinguistica basata sull’ossessiva ripetizione del concetto che non c’è alternativa.


E invece l’alternativa c’è, ed è questo il momento per riconoscerla. La pandemia in corso, e i provvedimenti conseguenti, ci mettono in condizione di sperimentare ritmi e relazioni totalmente differenti dal consueto. Il lockdown, termine tanto caro a noi losties, ci impone delle restrizioni al lavoro, al movimento e alla socialità: non sono limitazioni fasciste alle libertà personali, magari usate ad arte dall’establishment per controllarci – come qualche miope filosofo ha provato a sostenere sul Manifesto, evidentemente più attento all’ortodossia ideologica che alla lettura del dato di realtà. L’establishment ha tutto l’interesse acché lavoro, produzione e consumo continuino il più indisturbati possibile, ed è riprova di questo interesse il criminale ritardo con cui stati nazionali come Regno Unito, Stati Uniti e Francia stanno adottando provvedimenti restrittivi già operativi in Italia. Il ritardo criminale nel voler riconoscere la gravità della situazione si vede bene anche in provvedimenti e dichiarazioni di organizzazioni transnazionali – UEFA  e BCE per dirne due – e nei deliri complottisti di sostenitori Q-like dell’establishment medesimo, deliri che hanno oggi una cassa di risonanza mai ottenuta prima.
Ma anche in Italia l’atteggiamento è quello ben sintetizzato dallo slogan “Andrà tutto bene”, come a dire: vedrete che tutto tornerà come prima, resistiamo a questo momento, non potrà che tornare tutto come prima, meglio di prima. L’ottimismo come oppio del popolo: ottundere le masse con la promessa di vincere, lo stesso dispositivo che funziona sui ludopatici. Strategico, in questa dinamica, è il ruolo di internet. Con una rete che funziona, possiamo illuderci che andrà davvero tutto bene: possiamo continuare ad andare in ufficio – soprattutto gli addetti a quelli che David Graeber chiama bullshit jobs – a studiare – sulle mille piattaforme all’uopo predisposte – a socializzare – grazie alle videochiamate, ormai feature più utilizzata dei social media: in sintesi, a lavorare, a produrre, a consumare.
Ma se invece non andasse tutto bene?
Per usare un meme molto in voga in questi giorni, quello con il Marty Feldman di Frankenstein Junior:


Proviamo a pensare come sarebbe questa clausura senza l’accesso al web – se per qualche motivo (anche solo perché non abbiamo i soldi per rinnovare i nostri Giga) non ci fosse consentito libero accesso alla rete, o peggio se internet diventasse un bene rivale, oltre che escludibile.
Non si vuole qui dipingere uno scenario apocalittico, bensì provare a riflettere su un futuro diverso da quello che ci viene promesso, un futuro in cui i ruoli dello Stato, del privato e della comunità siano davvero ridisegnati dallo stato di necessità, introdotto da questo lockdown e che potrebbe farsi più serio nel medio periodo.
Proviamo a immaginare, per la prima volta dopo tanti anni, un futuro. Usciamo dal tunnel della distopia e dell’ucronia – i sottogeneri della fantascienza oggi più in voga, non a caso – e pensiamolo davvero, con paradigmi nuovi, senza nostalgie bucoliche e luddiste, ma anche senza l’illusione che tutto possa tornare come prima della pandemia.
Il tema-chiave è quello della ricchezza, oggi non equamente distribuita non solo a livello globale, ma anche a livello di società di una singola nazione, quando non al livello della singola organizzazione. La vulgata del realismo capitalista (altro topos di Mark Fisher) ci ha convinto che questa iniquità è inevitabile e incontrovertibile.
Il futuro che potremmo provare a immaginare, invece, non dà per scontato questo assunto, e anzi vuole ribaltarlo, insieme a quello di scarsità (presupposto teorico dell’economia capitalista). Beni e servizi ci sono per tutti: è ciò che il capitalismo ritiene efficiente che non è equo. L’idea di equità che oggi tutti danno per scontata è quella meritocratica – ma è un concetto ideologico, tanto quanto quella per uguaglianza, tipica del socialismo reale (ma con residui consistenti nella pubblica amministrazione e in ciò che resta dei sindacati).
È possibile pensare un’idea di equità basata su una redistribuzione diversa della ricchezza? È possibile pensare un assetto della società, una configurazione nuova di Stato, Mercato e Terzo settore, che consenta l’applicazione di tale idea di equità?
È possibile pensare un futuro in cui lo Stato sappia farsi carico dei bisogni dei suoi cittadini e – pur senza gestire direttamente tutti i servizi – si occupi responsabilmente della redistribuzione della ricchezza, senza affidarsi alla mano invisibile del Mercato?
Ma soprattutto: chi potrebbe impegnarsi nella costruzione di una nuova società, fondata su questo paradigma davvero alternativo per la prima volta in almeno trent’anni?
Paradossalmente, gli stessi nativi digitali a cui oggi si tende ad attribuire potenzialità enormi (come nel caso del fenomeno dei Fridays for Future) sono ormai troppo condizionati dall’uso della tecnologia (mezzo principale di privatizzazione dello stress, ricordiamolo) e privi di qualsivoglia coscienza collettiva (di classe, di partito, di movimento) per farsi carico di una simile rivoluzione.
Forse solo chi è nato da poco o deve ancora nascere potrà crescere in un contesto radicalmente cambiato e dare alla società una seconda possibilità. Forse solo a chi nasce sull’Isola, su questa isola che nessuno di noi ha saputo prevedere, è data la possibilità di pensare questo futuro.


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