Se si è in grado di non ascoltare il
rumore di fondo del chiacchiericcio giornalistico e di quello social – che si amplificano
a vicenda per raggiungere ormai lo sciacallaggio – o se comunque si riesce ad
aumentare il rapporto segnale/rumore per cogliere le trasformazioni dello
spirito del tempo, quel mutamento nella direzione del vento che scorre oltre le
skinner box della comunicazione di massa, ci si rende conto che qualcosa sta
effettivamente cambiando.
È vero che le narrazioni distopiche sono
ancora molto di tendenza, è vero che l’apocalisse informativa veicolata dalla
pandemia sembra non lasciarci via d’uscita, è vero che il proliferare – anche
quello virale – di voci disperanti e disperate anche all’interno delle nostre
bolle social (da cui, come in una gabbia della Stazione Hydra, sembra
impossibile uscire) sembra ci dica che non c’è domani. Eppure ci sono segnali
che stiamo effettivamente uscendo dal decennio della melanconia, per entrare in
quello della guarigione.
Melancholy in a Skinner Box
Il decennio della melanconia è
cominciato proprio con Melancholia, di Lars Von Trier, che giusto
dieci anni fa dipingeva una letterale fine del mondo, ad opera di un pianeta
carico di paura, depressione, disillusione. E' il decennio del recupero e della
riproposizione di tutte le peggiori distopie in letteratura, cinema,
televisione. E' il decennio in cui la hauntologia è assurta a
paradigma definitivo di lettura della realtà, assediata dai fantasmi del futuro
immaginato una volta e mai realizzato, se non per imitazione, campionamento,
remix e avvitamento del tempo su sé stesso.
Il decennio della melanconia faceva
seguito a quello della seconda possibilità, quello cominciato con
il 9/11 e Donnie Darko, quello che ha avuto in Lost e Battlestar Galactica le
narrazioni più significative. L'ultimo decennio del secolo XX, invece, è stato
quello della fallacia della realtà, con tutte le narrazioni
gnostiche come Matrix, The Truman Show e Dark City.
Perché diciamo che questo 2021 potrebbe
segnare l'inizio di uno nuovo zeigeist? La nostra non è forse una
pia illusione, del wishful thinking che fa il paio con le
illusioni - quando non le allucinazioni - di QAnon?
Un indicatore del fatto che qui non si
sta delineando una narrazione salvifica, con al centro personaggi più o meno di
rilievo ai quali affidare il futuro, è che la tendenza di cui parliamo è
collettiva e dialogica. Non c'è colui che ci salverà tutti, siamo noi che
guariremo insieme.
Ille qui nos omnes servabit
Segnali che qualcosa sta cambiando li
possiamo trovare nell'utopia di Yanis Varoufakis, Another Now,
oppure in quel capolavoro - che già su questa lavagna abbiamo collegato per
molti versi a Lost - che è Dispatches from Elsewhere. Li
troviamo nell'affermarsi
I'm not saying that the battle is won
E' ingenuo questo ottimismo, questa idea che la rotta possa cambiare?
Parlando proprio di melanconia in
un'interessantissima trasmissione di BBC Radio 4, l'autore inglese Horatio
Clare (che chi scrive ha avuto l'onore di conoscere sull'erba di un campo da
gioco) ha parlato del suo breakdown di due anni fa, oggetto - insieme alle
conseguenze, che inclusero l'internamento in una struttura psichiatrica, ma
anche un percorso di terapia basata sul dialogo che revoca in dubbio tutti gli
assunti, ancora piuttosto incrollabili nel mondo anglosassone,
sull'indispensabilità dei farmaci - del suo nuovo libro Heavy Light. Uno
degli interlocutori della trasmissione gli ha obiettato che una crisi così non
va intesa necessariamente nel modo negativo implicato dal termine breakdown,
ma va presa nell'accezione piena di potenzialità di breakpoint, punto di
rottura - ma anche rottura di livello, cambio di paradigma.
La pandemia è un game-changer di questo
tipo? E' questo il momento di guarire, ma non da soli.