lunedì 19 febbraio 2024

Always coming home

Quando ho provato a riprendere la mia attività di podcaster, l’occasione è stata una promettente serie di PrimeVideo, The Wilds, che – finché è durata – è risultata un ottimo epigono di Lost, non tanto e non solo per le ovvie similitudini della trama (non limitate all’insularità dell’ambientazione e alla presenza di un personaggio un po’ outcast che leggeva in spiaggia quello che trovava, e che giustificava il mantenimento del titolo Lostbooks), quanto per la ricchezza di livelli di lettura e di interpretazione. The Wilds, inoltre, ha messo sistematicamente a tema una dicotomia che in Lost era stata solo sfiorata, mentre quelle tra cooperazione e competizione, tra scienza e fede, tra destino e libero arbitrio sono state il leitmotiv di intere stagioni. La dicotomia è quella tra maschile e femminile, naturalmente, e – si scopre in particolare alla fine della prima stagione – su di essa si basa l’esperimento sociale della protagonista inizialmente occulta della serie. L’Alba di Eva, questo il nome del progetto, era mirato a dimostrare che è possibile una gynotopia – un’utopia al femminile, una ginecocrazia in cui le donne si autogovernano e affrontano le minacce dell’ambiente circostante in modo più efficace degli uomini. Un esperimento sociale con tanto di gruppo di controllo, il Tramonto di Adamo: un gruppo di ragazzi, su un’altra isola, ma con le stesse minacce: in breve tempo la loro comunità pare fare la fine del Signore delle Mosche, in un clima di sopraffazione e di paura (emotiva e fisica). Anche l’evento decisivo per la definitiva degenerazione in distopia dell’isola dei maschi è un evento fallocratico, quasi a dimostrare che tutte le distopie sono patriarcali.

Letture di evasione

La domanda che ci si potrebbe porre, astraendo da questo prodotto dopotutto minore dell’immaginario, è: le utopie sono tutte matriarcali? E perché abbiamo la sensazione che tutte le utopie, anche del lontano futuro, prevedano un ‘ritorno alla terra’?

È ad esempio il caso di Sempre la Valle, di Ursula K. Le Guin, alla quale dobbiamo peraltro tanta letteratura di fantascienza al contempo utopista, femminista e pacifista: il volume è strutturato come una raccolta di testi antropologici e etnografici sulla popolazione dei Kesh, che abita la California del nord in un futuro imprecisato post–collasso tecnologico. A corredo del volume, in Italia mai più ristampato dopo il 1986 da Mondadori, c’era anche una musicassetta contenente poesia e canti di quel popolo (oggi ascoltabili su Spotify), un po’ alla De Martino e al suo La Terra del rimorso. I Kesh sono “una società matrilineare, matrilocale, matricentrica; la vita è il mondo, l'ambiente, il femminile, è dono, scambio, movimento da e verso il centro, la vita è riflessione, ma è anche vissuto che non si può spiegare in parole, è mistero, respiro, suono, luce, oscurità, silenzio” (recensione di Maria Teresa Romiti sulla Rivista Anarchica dell’epoca). La loro nemesi sono i Condor, guerrieri e portatori di rovina e malattia: conquistatori che arrivano per soggiogare e adattare al loro modello di sviluppo chi invece ha saputo, come i Kesh, fiorire seguendo il ritmo della natura.

Regalo non a caso materno

Sviluppo contro fioritura: una società patriarcale costruisce, sviluppa, erige – una matriarcale accoglie, fiorisce, danza.

Una coincidenza significativa (ma ben sappiamo che tutto avviene per una ragione) mi ha portato a conoscere il lavoro di Marija Gimbutas (1921-1994), archeologa e linguista lituana: la cita nel suo più recente lavoro colei che mi invitò a parlare di Lost all’Università di Verona, ma è anche al centro delle riflessioni di uno dei podcast recenti più interessanti e avvincenti presentati da Il Post.

Ne L’invasione si parla, prima da un punto di vista linguistico, ma poi anche dal punto di vista genetico, di come in Europa siano arrivate le popolazioni che parlavano proto-indoeuropeo, portando narrazioni e modelli culturali totalmente diversi da quelli preesistenti. Le popolazioni che Gimbutas chiama dell’Europa Antica (fino al IV millennio a.C.) vivevano in società molto legate alla terra, con divinità femminili che racchiudevano caratteristiche di fertilità e ciclicità. Società non matriarcali, ma con tratti di non individualismo, accoglienza e non espansionismo che le resero candidate perfette per essere soppiantate dai popoli proto-indoeuropei (in realtà provenienti dalle steppe pontico-caspiche) della civiltà kurgan (o janma), che – avendo addomesticato il cavallo – si spostarono molto rapidamente fino all’estremo occidente d’Europa, con un modello di società individualista, conquistatrice, aggressiva – e con racconti (l’uccisore del serpente, i gemelli divini, e tante altre narrazioni che fanno da sostrato mitico a tutte le culture dell’Europa non più antica) in cui la componente maschile è decisamente prevalente.

Quando ti rendi conto che il nome kurgan non ti è nuovo

La realtà non è così netta, naturalmente: non è che i kurgan siano arrivati ‘tronfi di mascolinità’ (per citare Colin Renfrew, principale critico di Gimbutas, alla quale poi diede ampiamente ragione), armati, a cavallo, per razziare e conquistare i pacifici popoli antico-europei, agricoli e matriarcali. L’invasione che dà il titolo al podcast è avvenuta in tempi lunghi, attraverso mescolanze, scambi, sovrapposizioni e mutazioni che hanno preso molto tempo.

Però è piuttosto affascinante pensare che l’utopia che oggi cerchiamo nel lontano futuro prefigurato dalla fantascienza potrebbe essere stata realizzata nel lontano passato restituito dall’archeologia e dalla linguistica. E che quella che oggi chiamiamo distopia sia in realtà qualcosa in cui siamo immersi da cinquemila anni, probabilmente incapaci – culturalmente, linguisticamente, forse anche geneticamente – di pensare qualcosa che sia diverso dallo sviluppo, dall’affermazione di un potere a spese di un altro, dal controllo (centrale o diffuso poco importa) sulle manifestazioni delle persone e dei gruppi.

L’ossessione contemporanea per la misurazione, per quantificare, rendere confrontabili, valutare ogni fenomeno umano – foss’anche la sostenibilità ambientale dello sviluppo medesimo – ha radici lontanissime e probabilmente inestirpabili in quello che oggi chiamiamo Occidente. Un occidente (che non è evidentemente geografico, ma culturale, linguistico, economico-politico) che non ammette improduttività, non ammette tempi diversi da quelli pianificati, non ammette connessioni ‘altre’ rispetto a quelle progettate. Anche fenomeni profondamente umani come le arti figurative e la musica rischiano di rimanere ingabbiati in un modello di lavoro–produzione–consumo improntato alla definizione di obiettivi e alla loro misurazione, non già alla libera fioritura delle idee e degli artefatti conseguenti.

Mark Fisher, come di consueto illuminante, prima di andarsene, ha immaginato un Acid Communism che attingesse alla psichedelia (fenomeno non ingabbiabile per eccellenza, regno della fioritura incontrollata) e alla condivisione collettivista, per contrastare il realismo capitalista autoproclamatosi ineluttabile. Ma si tratta, anche in questo caso, di un modello che pretende di sostituirne un altro – che è senz’altro patriarcale e individualista – ma che non riusciamo a pensare diversamente da un'altra -αρχία.

All’inizio di Universal Mother, album del 1994 di Sinéad O’Connor, si sente la voce di Germaine Greer prospettare qualcosa di radicalmente alternativo, qualcosa che lei chiama cooperazione e attribuisce alle donne:

“I do think that women could make politics irrelevant by a kind of spontaneous cooperative action, the likes of which we have never seen – just so far from people’s ideas of state structure and viable social structure that it seems to them like total anarchy. And what it really is: very subtle forms of interrelation which do not follow some hierarchical pattern that is fundamentally patriarchal. The opposite of patriarchy is not matriarchy, but fraternity. And I think it’s women who are going to have to break the spiral of power and find the trick of cooperation”

Lost in effetti aveva parlato già di cooperazione, come alternativa alla competizione, nel primissimo dualismo Jack/Locke, allorché erano - da poco sull'Isola - il pastore contro il cacciatore. Ma si trattava di modelli entrambi patriarcali: risignificando il nesso tra cooperazione e femminile è possibile pensare a un’alternativa davvero vitale alla distopia (ecologica e sociale) che stiamo vivendo?

mercoledì 31 gennaio 2024

Dogs of War

Si discorre, in diverse sedi online, della deriva conflittuale che avrebbero preso i social network con la pandemia che aveva inizio ormai quattro anni fa. Una deriva in cui i fronti contrapposti su temi estemporanei (e spesso futili) si attaccano con violenza cieca e odio micidiale – a distanza, da dietro una tastiera, ma sempre più spesso con tracimazioni nel mondo reale. Ha senso – ci si chiede – lavorare all’interno dei social per un ritorno a un confronto più umano, a un linguaggio più gentile, alla creazione di comunità fertili e generative (e non sterili e distruttive)?

Mark, volevi dirci qualcosa?

Io temo che i social network siano ormai irrimediabilmente enshittificati, per dirla con Cory Doctorow: non tanto e non solo a causa del trauma pandemico, quanto per una scelta deliberata dei gestori delle piattaforme, finalizzata a spostare il valore generato (inizialmente a vantaggio dell’utenza) agli azionisti delle piattaforme medesime. Questa riallocazione è guidata dagli algoritmi, che ormai veicolano prioritariamente post divisivi sulle bacheche di chiunque, per generare flame e shitstorm che sono il traffico necessario per massimizzare il profitto per gli shareholder. Temo ormai non sia più sufficiente bannare o non nutrire i troll, perché i bias di conferma che ci portiamo tutti dentro sono sollecitati in maniera soverchiante: per un troll che banno, ne arrivano altri dieci – per un contatto che si mantiene rispettoso, altri dieci sbroccano – e alla fine sbrocca chiunque. Si potrebbe addirittura teorizzare che la trollificazione degli utenti sia l’epifenomeno della enshittification – e il modo che hanno gli algoritmi per generare plusvalore per chi lo estrae dalle piattaforme. La soluzione è abbandonare i social come Jaron Lanier raccomanda da anni (ben prima della pandemia)? Sarà una fuga nei boschi?

Sicuri di voler andare di là?

Proprio di recente, mentre parlavo – in un corso di formazione – dell’utilizzo delle piattaforme, mi è sfuggito il famigerato, thatcheriano, ‘non c’è alternativa’ a proposito della presenza sui social di un’impresa, un’iniziativa, un progetto. Non c’è alternativa, perché è da lì che ‘passa tutto’, e guai a usare un linguaggio diverso da quelli socialmente accettati (che sia il tranchant blastatore, che sia il melenso cuoricinabile), pena l’invisibilità e l’oblio. Ora, il TINA (there is no alternative) è la summa e la sintesi del realismo capitalista, di cui ci parla Mark Fisher. Se cediamo su questo punto, non possiamo lamentarci di nulla, perché vuol dire che abbiamo accettato come ineluttabili i meccanismi di lavoro-produzione-consumo del capitalismo compiuto. Non possiamo illuderci di ‘cambiare il sistema dall’interno’: gli algoritmi saranno sempre più forti, fintanto che li nutriamo, e ci trasformeremo in troll prima di accorgercene. L’algoritmo è il meta-troll che dobbiamo smettere di nutrire, e questo lo si può fare solo andandocene. La pandemia, in questo senso, ha esasperato la deriva bellicista dei social, proprio grazie al fatto che essi sono stati l’unico posto dove interagire quando non ci pareva ci fosse un altrove dove andarcene (in realtà c’era, sebbene online e non offline).

Comunque l'unico mio 30 e lode

Racconto spesso di uno dei due autori sovietici del libro più rigoroso e più complesso su cui ho studiato, uno di quei testi totalmente privi di chiacchiere (alle quali tendono di più gli scienziati americani) che trasudano socialismo reale. Ebbene, come noi comuni mortali non ricordiamo un’epoca in cui non sapevamo fare di conto, costui era noto per non ricordare un’epoca in cui non sapesse integrare - per dire quanto connaturata alla sua vita quotidiana fosse l’analisi matematica. E noi, riusciamo a ricordare com’era la vita prima dei social? Non è tanto tempo fa, eppure il web senza social network sembra un nebuloso, lontano passato, tanto la loro prevalenza sulle altre forme di interazione via internet è diventata imponente. La lenta cancellazione del futuro cui ha provveduto il realismo capitalista è stata seguita dalla cancellazione del passato ad opera degli algoritmi: viviamo in un eterno presente conflittuale, dove qualcuno di impersonale ci dice chi è il nemico del momento, su cui ci accaniamo creando branchi (che coincidono con le nostre bolle social), con riflessi pavloviani (bava alla bocca e tutto) tipici di specie diverse di mammiferi. E Orwell, a cui ormai si attribuisce qualunque aforisma, ci guarda da lontano scuotendo la testa.

Oggi tocca all'Estasia

Pensiamo di poter smettere quando vogliamo, come con una droga: ma non è così. Siamo talmente immersi in questo liquido amniotico artificiale che ci conforta e ci dona endorfine, che facciamo fatica a renderci conto di stare nutrendo noi la Matrice, e non viceversa. E smettiamo di desiderare qualcosa di diverso.


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