domenica 19 luglio 2020

Dispatches from Eutopia

Quello che il mondo sta vivendo oggi è un periodo, se possibile, di ancora maggiore incertezza rispetto ai mesi iniziali della pandemia. È un periodo nel quale molti – dai governanti dei paesi più industrializzati ai cittadini comuni, passando per imprenditori e lavoratori di ogni settore e livello – stanno scommettendo sul non impennarsi nuovamente della curva dei contagi, sul non presentarsi della necessità di nuovi e più aspri lockdown. Questa scommessa assume molti volti, economicamente significativi, a partire dall’attenuarsi delle misure di sicurezza sui mezzi di trasporto, alla concessione di più ampie disponibilità alle manifestazioni sportive, artistiche e in senso lato culturali, fino all’autorizzazione più o meno esplicita degli assembramenti nella vita sociale, specialmente vacanziera, visti i tempi. Su cosa è fondata questa scommessa? È basata sull’osservazione dell’andamento recente degli indicatori–chiave della pandemia, nell’ipotesi che essi possano predire l’andamento futuro? O forse è basata sull’auspicio che essi non cambino – indipendentemente dai comportamenti dei cittadini – e che si possa tornare, presto, il prima possibile, a fare la vita di prima?
L’incertezza – più ancora che su quello che succederà fra uno, due, tre mesi – è proprio questa: stiamo scommettendo consapevoli delle nostre probabilità di vincita oppure stiamo sperando che la giocata a questa slot machine (di cui non conosciamo costruttore, algoritmo, probabilità di vincita) ci serva un jackpot e non l’ennesimo giro a vuoto?

Do we have to go back?

Ma soprattutto, che desiderio è auspicare di tornare a fare la vita di prima? Perché non abbiamo saputo pensare una vita diversa, in questi mesi sulla nostra personale Isola? È vero che – come ci disse Mark Fisherper ora il nostro desiderio è senza nome, ma non era questo il momento buono per riconoscerlo, farlo nostro, dargli un nome?
Non era questo il momento per sfuggire alla logica distopica del tardo capitalismo? A quel tallone di ferro che non è necessariamente una dittatura para-fascista, ma l’asservimento di intere categorie etniche, economiche e sociali agli interessi di pochi? La distopia – non a caso se ne parla molto, di questi tempi – non è un genere letterario né un sottogenere della fantascienza: l’approssimazione migliore è quella del meta-genere al quale afferiscono più filoni letterari, cinematografici, televisivi – anche musicali e teatrali, peraltro – attualmente particolarmente in voga. Perché ben descrivono la situazione attuale, si dice, estremizzandone qualche aspetto, ma in fin dei conti raccontando fedelmente la realtà. Ma è sano crogiolarsi in questo brodo di coltura distopico, senza cercare di tirarsene fuori? Non è a sua volta malsano nutrirsi di questo tipo di spettacoli, confermandone con la fruizione, il godimento, quasi il compiacimento, la natura descrittiva e ineluttabile? Perché non provare a trovare una utopia positiva, una eutopia che non sia outopia?

An Other kind of Utopia

Qualcuno ci sta provando, durante il suo lockdown: il nuovo EP dei Massive Attack si chiama proprio Eutopia ed è un esperimento singolare, perché rinuncia alla fruibilità immediata della musica per imporre il messaggio politico, rendendolo imprescindibile sebbene dissonante dalla cornice artistica. Volete ascoltarci? paiono dire. Ebbene, ascoltate (e leggete) quello che hanno da dire su questioni-chiave del post-Covid alcuni studiosi esperti – più di noi, che magari saremmo osannati da fan acritici, ma che perderebbero tutto il contenuto che vogliamo veicolare.
Ma perché molti di noi non riescono ad alzare la testa, a liberarsi dal giogo apparentemente inevitabile che ci opprime? Perché siamo acquiescenti, anzi volenterosi abitanti del Villaggio (quello di The Prisoner, ovviamente), che accettano acriticamente le follie dei vari Numeri Due e anzi accusano, ingannano e trattengono chi se ne vuole andare?



I Numeri Sei preferiscono essere presi per stupidi, piuttosto che per carogne.
C’è chi è in grado di voler uscire, da questo villaggio, e seguendo degli indizi (un gioco, anche qui, ma quanto di immaginario e quanto di reale rappresenta?) dare un nome al proprio desiderio di una vita diversa, con qualcuno di diverso, con sogni nuovi di una città nuova, di una società nuova, di un mondo completamente altro. La serie Dispatches from Elsewhere rappresenta qualcosa di totalmente atipico nello scenario televisivo odierno: lungi dall’essere una parabola vagamente autobiografica e metanarrativa di chi lo ha scritto, prodotto e interpretato (l’ampiamente sottovalutato Jason Segel), coinvolge a molti livelli lo spettatore, che non può restare indifferente. È una sfida dal punto di vista emotivo, intellettuale, politico, artistico, e anche metafisico: chi scrive non usa certi paragoni alla leggera, ma una tale vicinanza a Lost non si era ancora vista, e non è solo per il dato superficiale che l’alternate reality game che fa da sfondo alla vicenda ricorda da vicino la Lost Experience. Le dicotomie che caratterizzano la serie sono quelle esistenziali che hanno fatto da leit-motiv a Lost, sono dialettiche fondative che interrogano in profondità il fruitore non superficiale: sincronicamente, non poteva capitare momento più adatto per un simile prodotto. Il gioco a cui partecipano i protagonisti è l’occasione per ripensare la propria vita, le proprie relazioni, le proprie convinzioni: una sospensione della vita normale che può dare origine a qualcosa di radicalmente nuovo, indipendentemente dagli esiti del gioco stesso.
Indipendentemente da come finirà (se finirà) questa pandemia, è questo il momento per pensare e pensarsi diversi: siamo ancora in tempo.


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