domenica 23 maggio 2021

How to let go

A distanza di undici anni dal finale di Lost, al quale chi scrive ha assistito in un’aula universitaria – a mo’ di appendice ad un corso al quale aveva contribuito pochi mesi prima con due lezioni proprio sulla serie – si è manifestata la curiosità di conoscere l’opinione di un accademico eretico come Mark Fisher, spesso citato su questa Lavagna, su Lost.

Undici anni fa, Univr

Mark Fisher (1968-2017) è uno dei più lucidi interpreti della realtà contemporanea, segnata dal neoliberismo compiuto, per cui scrive – in Realismo capitalista – “il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è il consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine”. La lucidità che lo ha portato a togliersi la vita a nemmeno cinquant’anni si è manifestata in saggi (comunemente ascritti alla theory fiction), articoli e soprattutto post sul suo blog k-punk, che Minimum Fax sta progressivamente pubblicando, raccogliendoli tematicamente. Gli interessi di Mark Fisher si sono spesso focalizzati sulle manifestazioni della cultura popolare: musica, cinema, televisione, calcio, con frequenti incursioni proprio a proposito delle serie televisive. 
Ma Mark Fisher ha mai scritto di Lost? Anche attraverso la consultazione di lettori, esegeti o semplicemente fan dell’autore, raccolti nel gruppo Facebook Mark Fisher Memes for Hauntological Teens – incidentalmente, un uso eretico del social network che meglio esemplifica le rovine del tardo capitalismo – non si è riusciti a trovare un-articolo-uno dedicato a quella specifica serie. Eppure, ci si è detto, non può essergli sfuggita l’occasione di dire qualcosa su un testo così ricco di spunti politici e filosofici, dalla così tante possibili letture. 

Lost futures

Un podcaster scozzese, Angus Stewart, ad esempio ha fatto notare come tutto quanto riguarda la Dharma Initiative rivesta – se non a livello politico, almeno a quello hauntologico – un interesse prettamente fisheriano: l’utopismo hippie che sopravvive ben oltre l’epoca storica di appartenenza, il sinistro ruolo (aziendalista/capitalista) della Hanso Foundation, l’utilizzo di diversi media e formati, congelati nel tempo, mescolati e impiegati per finalità imperscrutabili (i video di Orientamento, i dischi in vinile, la torre radio, i computer anni '80…). La Dharma Initiative resta uno degli elementi chiave del leitmotiv politico di Lost – cooperazione vs. competizione – in quanto la sua visione e i suoi obiettivi sono proprio un futuro perduto alla Fisher. 

Reaching out for a better tomorrow

Proprio quando ci stavamo rinunciando definitivamente, chi scrive ha trovato – giusto nell’ultimo volume per ora pubblicato in Italia di Mark Fisher, Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione. K-punk/2 – quello che pare essere l’unico riferimento a Lost nel magmatico corpus fisheriano: un articolo del 2015 su New Humanist a proposito di The Leftovers, Broadchurch e The Missing. Nella parte dedicata alla serie – basata sul romanzo di Tom Perrotta – che dobbiamo proprio a Damon Lindelof (curiosamente, nell’articolo originale e nella traduzione italiana, il cognome è sbagliato in due modi diversi: Lindelhof e Lindnhof), si legge: 

Lost si è trovato gradualmente invischiato in una rete sempre più estesa di misteri nascosti, che alla fine hanno assunto i contorni della parodia e a dare l’impressione di essere stati inseriti al solo fine di mandare avanti la storia, senza la possibilità di essere spiegati in modo soddisfacente. 

Possibile che un’opinione di Mark Fisher sia così superficiale? Proprio colui al quale attribuiamo approfondimento mai banale e efferatezza analitica può essersi macchiato di tale pigrizia intellettuale?

Mark Fisher, da un lato, risente della sindrome del defunto giovane, dai seguaci (come dai parenti, in ambito familiare) idealizzato – e quasi santificato – per le sue sole caratteristiche positive, trascurando (disvedendo, direbbe China Miéville) i tratti umani, meschini, o anche solo apparentemente incoerenti della sua storia. Dall’altro, Lost è una serie che non necessariamente si inserisce in modo decisivo nella storia personale di tutti i suoi spettatori: è corretto ammettere che qualcuno possa averla abbandonata, presto o tardi, comunque prima della fine, perché non gli/le parlava (più). 
Probabilmente è questo il caso di Fisher: è improbabile che abbia guardato Lost fino alla fine (non avrebbe mancato di cogliere il nesso, proprio in quell’articolo, proprio titolato così, con il senso ultimo della serie di Lindelof e Cuse), basandosi per quell’inciso su impressioni colte da altri (e che dobbiamo ammettere legittime), senza ritenere necessario un approfondimento personale. 


È significativo che queste due consapevolezze – Mark Fisher non è infallibile, il non apprezzare Lost non è una colpa – arrivino insieme, a undici anni dal finale. Forse è davvero il momento di farsene una ragione e andare avanti. Ma di ricordare, sempre.

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