domenica 12 aprile 2020

It only ends once

Il protrarsi del lockdown sta comprensibilmente facendo saltare i nervi a più di qualcuno, ma non tanto per il confinamento forzato, quanto per l’incertezza rispetto al futuro. È uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, quello di certezza, quello di sapere “come andrà a finire”. È bisogno di polarizzazioni in cui prendere posizione, è bisogno di poter dire che tutto avviene per una ragione, e questa ragione è con certezza – e magari con semplicità – riconoscibile, che quello che accade ha – in escalation – una causa efficiente, un qualche responsabile, un colpevole.
Non è ammissibile – o comunque non è tollerabile per un tempo troppo prolungato – non riuscire a riconoscere quale parte sia meglio prendere, a quale schieramento aderire, a chi affidarci per sentirci parte di un qualcosa di più grande – fosse anche il principio della totale autodeterminazione del singolo.


Vogliamo poter dire live together die alone oppure every man for himself, vogliamo poterci dire uomini di scienza o uomini di fede, leader pastorali oppure cacciatori – in poche parole, vogliamo poter veder bene la linea di demarcazione tra le dicotomie che caratterizzano la nostra vita, e che sono state – almeno a giudizio di chi scrive, cfr. la vigilia della sesta stagione, una Passione di dieci anni fa – il leitmotiv di Lost.


- They come. They fight. They destroy. They corrupt. It always ends the same.
- It only ends once. Anything that happens before that is just progress

Lo scambio tra Jacob e suo fratello rappresenta perfettamente la madre di tutte le dicotomie: il tempo è ciclico o è lineare? Finisce sempre allo stesso modo oppure c’è un progresso, un cambiamento? Siamo vincolati a un destino di lotta, distruzione e corruzione, oppure siamo liberi di pensare una fine diversa, magari catalizzata da un fattore imprevisto, imponderabile?
Il virus è – materialmente e metaforicamente – l’imponderabile, il caso che non si può governare, la mutazione non prevista dal sistema, e che lo manda in crisi.
Il sistema in cui ci troviamo (o almeno, ci trovavamo fino a un mese fa) è basato sul presunto irrevocabile primato dell’economia capitalistica, che non ammette alternative e che quindi ritiene possibile solo un riproporsi dei suoi modi e dei suoi ritmi: da qui l’accento sulla ripartenza, sulla riapertura, sul riprendere il ciclo preesistente di lavoro-produzione-consumo. Non è pensabile niente al di fuori di questa ciclicità, e non è un caso che l’economia capitalistica sia quanto di più deterministico la mente umana abbia mai concepito. L’economia aziendale contemporanea – ormai ovunque adattata anche alla gestione della cosa pubblica – ha ammesso una certa dose di indeterminazione, ma sempre con l’obiettivo di quantificare i rischi, renderli prevedibili e mitigarli con mezzi statistici. Ma il virus è una pallina della roulette, non è un cavallo su cui puntare: il caso che rappresenta è totalmente libero, puro e irriducibile.
Non è neppure questione di ottimismo o pessimismo nei confronti del genere umano: si potrebbe pensare che il determinismo sia pessimista, che consideri l’essere umano e la società inevitabilmente votati all’annientamento, e che quindi richieda controllo sociale, diretto o indiretto, statale o contrattuale, da Hobbes, passando per Locke, a Bentham (udite udite) – ma si può sostenere altrettanto a ragione che il determinismo sia ottimista, che una mano invisibile conduca l’umanità al benessere della maggior parte delle persone, in modo efficiente, basta non limitarne la libera iniziativa, la libera circolazione, il libero scambio.


Non è determinista solo il liberismo, specie nella sua accezione contemporanea di realismo capitalista: lo è (stato) anche il socialismo, più o meno reale – con una sfumatura più ottimista – ma lo sono stati anche i fascismi – con una sfumatura più pessimista.
Il dibattito che imperversa in Italia, al netto degli interventi ripugnanti di chi cerca solo un po’ di visibilità per non cadere nell’oblio, è tra due determinismi: uno più controllante e uno più libertario, ma pur sempre due determinismi. C’è chi si appella al primato del politico e chi a quello del tecnicismo scientifico, ma sono – anche qui – due determinismi che si illudono di poter prevedere gli sviluppi della situazione, e che attribuiscono all’uno o all’altro dei propri appigli la possibilità di far tornare sui binari della normalità la vita individuale e comunitaria.
Ma il virus è una pallina della roulette: non puoi prevedere se e quando uscirà il numero su cui hai puntato, nemmeno la dozzina, nemmeno il colore. Lo stillicidio dei dati sulla pandemia ci dimostra ogni giorno di più (ma ieri in modo particolarmente frustrante) che non esiste un modello previsionale adeguato, sulla base del quale acconsentire a riaperture anche solo parziali o a riprese di attività, caldeggiate da chi non ha altro paradigma interpretativo della realtà che non sia quello economico.
Jacob sceglie Jack, il Fumo Nero sceglie Locke, ognuno per far valere la propria idea. Ma la vera variabile impazzita è Desmond, non a caso campione di distanziamento sociale: inserire questo fattore casuale nel quadro d’insieme scompagina completamente la disputa.


E infine, il passaggio di testimone da Jack a Hurley rappresenta una modifica sostanziale del modo di gestire le cose. The new man in charge rappresenta il vero superamento del determinismo, nell’accogliere – a malincuore, controvoglia, contro qualsiasi previsione – una missione che il senso comune ritiene impossibile. Hugo è lo hobbit che porta a compimento l’impresa che nessun grande uomo è in grado di realizzare, la follia che acceca l’occhio del nemico, il fattore che cambia davvero il paradigma, che genera il nuovo che non era stato ancora immaginato.
È uno Hurley che stiamo aspettando: lo sapremmo riconoscere?

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