mercoledì 9 settembre 2020

Quelli che... risucchiati nello spazio-tempo...

Sarebbe bello, QUI SULLA LAVAGNA, approfittare di Tenet per ritornare per qualche istante a farci risucchiare nei paradossi spazio-temporali che tanto abbiamo amato in Lost o a interrogarci sull'uso della ripresa in senso inverso alla quale già i fratelli Lumière avevano alluso alle origini della settima Arte (per non parlare di altri, a partire da Lynch). 

Come ho già scritto sul mio blog a proposito di #TENET, non credo di riguardarlo, ma avendolo visto nel giorno d'uscita in sala e avendo di conseguenza seguito con interesse il ricchissimo (e devo dire assai stimolante) dibattito scaturito, mi sono convinto che il film paga il fatto di non essere stato girato subito, ovvero sei o sette anni fa, quando è stato concepito (e magari allora il fratello avrebbe pure battuto un colpo in sceneggiatura).

La rottura di paradigma che Nolan difende è ormai lontana qualche anno e pensare alla cifra del palindromo come di rottura epocale ora, mi suona difficile. Gli stessi scenari da spy-movie, inseguiti per tutto il film, non vengono innervati a sufficienza dalla rottura spazio-temporale. C'è molto dejavu, non sempre semplice da decifrare però.

Film come #THEMATRIX o serie Tv come #LOST sembrano a me più riusciti e centrati anche perché maggiormente figli del loro tempo.

O forse la manovra a tenaglia (cara già ai grandi condottieri della storia antica) non si è ancora compiuta. Ma questo lo lascio dire ai nolaniani più esperti di me (io che nolaniano non sono).

Vorrei tanto congedarmi con un palindromo all'altezza, ma non essendo in grado di manifestare cotanta scienza aspetto altre riflessioni su algoritmi più o meno spezzati, paradossi spazio-temporali e cambi di paradigma.

E infine c’è lei, la ruota.



domenica 19 luglio 2020

Dispatches from Eutopia

Quello che il mondo sta vivendo oggi è un periodo, se possibile, di ancora maggiore incertezza rispetto ai mesi iniziali della pandemia. È un periodo nel quale molti – dai governanti dei paesi più industrializzati ai cittadini comuni, passando per imprenditori e lavoratori di ogni settore e livello – stanno scommettendo sul non impennarsi nuovamente della curva dei contagi, sul non presentarsi della necessità di nuovi e più aspri lockdown. Questa scommessa assume molti volti, economicamente significativi, a partire dall’attenuarsi delle misure di sicurezza sui mezzi di trasporto, alla concessione di più ampie disponibilità alle manifestazioni sportive, artistiche e in senso lato culturali, fino all’autorizzazione più o meno esplicita degli assembramenti nella vita sociale, specialmente vacanziera, visti i tempi. Su cosa è fondata questa scommessa? È basata sull’osservazione dell’andamento recente degli indicatori–chiave della pandemia, nell’ipotesi che essi possano predire l’andamento futuro? O forse è basata sull’auspicio che essi non cambino – indipendentemente dai comportamenti dei cittadini – e che si possa tornare, presto, il prima possibile, a fare la vita di prima?
L’incertezza – più ancora che su quello che succederà fra uno, due, tre mesi – è proprio questa: stiamo scommettendo consapevoli delle nostre probabilità di vincita oppure stiamo sperando che la giocata a questa slot machine (di cui non conosciamo costruttore, algoritmo, probabilità di vincita) ci serva un jackpot e non l’ennesimo giro a vuoto?

Do we have to go back?

Ma soprattutto, che desiderio è auspicare di tornare a fare la vita di prima? Perché non abbiamo saputo pensare una vita diversa, in questi mesi sulla nostra personale Isola? È vero che – come ci disse Mark Fisherper ora il nostro desiderio è senza nome, ma non era questo il momento buono per riconoscerlo, farlo nostro, dargli un nome?
Non era questo il momento per sfuggire alla logica distopica del tardo capitalismo? A quel tallone di ferro che non è necessariamente una dittatura para-fascista, ma l’asservimento di intere categorie etniche, economiche e sociali agli interessi di pochi? La distopia – non a caso se ne parla molto, di questi tempi – non è un genere letterario né un sottogenere della fantascienza: l’approssimazione migliore è quella del meta-genere al quale afferiscono più filoni letterari, cinematografici, televisivi – anche musicali e teatrali, peraltro – attualmente particolarmente in voga. Perché ben descrivono la situazione attuale, si dice, estremizzandone qualche aspetto, ma in fin dei conti raccontando fedelmente la realtà. Ma è sano crogiolarsi in questo brodo di coltura distopico, senza cercare di tirarsene fuori? Non è a sua volta malsano nutrirsi di questo tipo di spettacoli, confermandone con la fruizione, il godimento, quasi il compiacimento, la natura descrittiva e ineluttabile? Perché non provare a trovare una utopia positiva, una eutopia che non sia outopia?

An Other kind of Utopia

Qualcuno ci sta provando, durante il suo lockdown: il nuovo EP dei Massive Attack si chiama proprio Eutopia ed è un esperimento singolare, perché rinuncia alla fruibilità immediata della musica per imporre il messaggio politico, rendendolo imprescindibile sebbene dissonante dalla cornice artistica. Volete ascoltarci? paiono dire. Ebbene, ascoltate (e leggete) quello che hanno da dire su questioni-chiave del post-Covid alcuni studiosi esperti – più di noi, che magari saremmo osannati da fan acritici, ma che perderebbero tutto il contenuto che vogliamo veicolare.
Ma perché molti di noi non riescono ad alzare la testa, a liberarsi dal giogo apparentemente inevitabile che ci opprime? Perché siamo acquiescenti, anzi volenterosi abitanti del Villaggio (quello di The Prisoner, ovviamente), che accettano acriticamente le follie dei vari Numeri Due e anzi accusano, ingannano e trattengono chi se ne vuole andare?



I Numeri Sei preferiscono essere presi per stupidi, piuttosto che per carogne.
C’è chi è in grado di voler uscire, da questo villaggio, e seguendo degli indizi (un gioco, anche qui, ma quanto di immaginario e quanto di reale rappresenta?) dare un nome al proprio desiderio di una vita diversa, con qualcuno di diverso, con sogni nuovi di una città nuova, di una società nuova, di un mondo completamente altro. La serie Dispatches from Elsewhere rappresenta qualcosa di totalmente atipico nello scenario televisivo odierno: lungi dall’essere una parabola vagamente autobiografica e metanarrativa di chi lo ha scritto, prodotto e interpretato (l’ampiamente sottovalutato Jason Segel), coinvolge a molti livelli lo spettatore, che non può restare indifferente. È una sfida dal punto di vista emotivo, intellettuale, politico, artistico, e anche metafisico: chi scrive non usa certi paragoni alla leggera, ma una tale vicinanza a Lost non si era ancora vista, e non è solo per il dato superficiale che l’alternate reality game che fa da sfondo alla vicenda ricorda da vicino la Lost Experience. Le dicotomie che caratterizzano la serie sono quelle esistenziali che hanno fatto da leit-motiv a Lost, sono dialettiche fondative che interrogano in profondità il fruitore non superficiale: sincronicamente, non poteva capitare momento più adatto per un simile prodotto. Il gioco a cui partecipano i protagonisti è l’occasione per ripensare la propria vita, le proprie relazioni, le proprie convinzioni: una sospensione della vita normale che può dare origine a qualcosa di radicalmente nuovo, indipendentemente dagli esiti del gioco stesso.
Indipendentemente da come finirà (se finirà) questa pandemia, è questo il momento per pensare e pensarsi diversi: siamo ancora in tempo.


venerdì 22 maggio 2020

Lockdown

Cari amici, dieci anni fa - circa alle 04.38 am, - questo blog veniva messo - dal nostro Faramir - in modalitá lockdown.
Onde evitare che il virus spoiler potesse contagiare e rovinare la nostra visione di "The End".
Pronti per domani?
Per ricordare e rinverdire i fasti della nostra Lavagna?
Un abbraccio a tutti!

martedì 12 maggio 2020

La possibilità di un'isola

Una volta entrati nella Fase 2, ci ritroviamo ad assaporare un misto di delusione e vertigine, come se le nostre aspettative – ottimistiche o pessimistiche – fossero state comunque disattese e come se il gioco che stavamo giocando non fosse una alea ma una ilinx (per usare le categorie di Roger Caillois).
Parliamo della delusione, prima che della vertigine: emerge in questi giorni, significativamente da realtà e tribune anche molto lontane tra loro, eppure in modo sincronico, un sentimento di disillusione, il tentativo di frenare facili entusiasmi o vaticini apocalittici. Due esempi su tutti.

Two players, two sides – one is light, one is dark 

Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo, scrive Lorenzo Marsili in un articolo molto affascinante, che tenta anche di rilanciare in chiave ottimistica il concetto di ‘fantascienza del presente’. Il progresso non fa salti quantici ma procede lungo un continuum, al paradigma della crisi va sostituito quello della lisi - che pure contiene elementi sia di cura che di decadimento – la novità si diffonde come un sapore in bocca, non arriva come un muro verso lo schianto contro il quale l’umanità procede inarrestabile.
Non ci sveglieremo, dopo il lockdown, in un mondo nuovo, scrive da par suo Michel Houellebecq; sarà lo stesso, solo un po’ peggio. L’autore francese, ormai quindici anni fa, pubblicò il romanzo La possibilità di un’isola (guarda caso) in cui si immaginava – ma l’idea era presente fin da Le particelle elementari – che parte del genere umano si sarebbe evoluta verso il completo isolamento e la rarefazione dei contatti interpersonali (dall’abolizione di quelli fisici alla scomparsa anche di quelli online), per riprodursi asetticamente per clonazione, eliminando sentimenti ed emozioni, e lasciando il resto dell’umanità alla regressione animalesca. Un postumanesimo che in realtà vediamo già efficacemente all’opera grazie a innovazioni più o meno significative (acquisti online e pagamenti contactless, video-on-demand e social network, smart working e servizi di messaggistica, …), e che i provvedimenti emergenziali per la pandemia in corso non hanno fatto altro che accentuare e accelerare.
Ancora due determinismi, uno ottimista e uno pessimista: uno che cerca di modificare i coefficienti dell’equazione di Valenzetti, come la Dharma Initiative sull’Isola, per allontanare la fine del genere umano, e uno che ritiene che la fine sia inevitabilmente quella – con le caratteristiche del lamento e non del boato, naturalmente. Entrambi i determinismi si sono resi conto che non è vero che nulla sarà più come prima: sarà tutto come prima, se non peggio – più o meno precipitosamente a seconda di come operiamo nel presente.

Utopia e ingegneria sociale nella Dharma Initiative

È possibile reimmaginare il presente? Abbiamo visto come il realismo capitalista di cui parla Mark Fisher ci abbia messo nelle condizioni di considerare inevitabile e incontrovertibile quello che stiamo vivendo nel tardo capitalismo, e quindi di non saper immaginare un futuro che non sia una mera variazione sul tema del presente e del recente passato (un eterno oggi che è descritto, non immaginato, da letteratura, cinematografia e televisione della distopia): il nostro desiderio è senza nome. Ma è possibile reinventare il presente? Non è forse il senso originario dell’utopia?
È possibile una eu-topia che non sia ou-topia? Qualcosa che non sia proiettato in un futuro che non riusciamo a pensare o in un passato sempre più vago e consolatorio?

Il molo di Pala

Senza scomodare Aldous Huxley, che – insieme a una delle più famose distopie – ci ha lasciato anche una utopia del presente, guarda caso intitolata L’Isola (omaggiata da Lost con il nome del molo usato dagli Altri), abbiamo qualche testimonianza nella storia recente della capacità dell’uomo di coesistere con altri uomini senza che gli esiti siano invariabilmente sperequazione, sfruttamento, sopraffazione, annientamento? Un libro di Rutger Bergman, di imminente pubblicazione, ci racconta la ‘vera storia del Signore delle Mosche’: il caso di sei ragazzi tongani naufragati su un’isola del Pacifico nel 1966, dove rimasero per quindici mesi costituendo una società egalitaria e solidale, tutto il contrario di quanto descritto nel romanzo di Golding – a sua volta una delle massime ispirazioni per Lost – paradigmatico nella sua disillusione nei confronti del genere umano. È un fatto documentato, contro l’apoditticità della teoria. È un indizio – non certo la prova – che qualcosa può essere cambiato, qui e ora?
Forse. Non si può replicare al determinismo con formule altrettanto nette. Non ci sono soluzioni analitiche per le vicende umane, solo approssimazioni. Eppure ci piace pensare che – se a quei ragazzi, across the sea, è riuscito un esperimento sociale su cui hanno dibattuto per secoli filosofi e scienziati – potrebbe riuscire anche all’umanità del post–Covid-19. Che ci sia la possibilità, in quest’isola. Non ci resta che provarci, empiricamente.

A che gioco giochiamo?

Ma non si era detto che il virus era il caso, l’azzardo estremo, l’imponderabile? Il dado, l'alea di cui non possiamo prevedere i movimenti? Lo è, ma il gioco che stiamo vivendo in questa fase è più simile alle montagne russe, agli sport estremi, all’ebbrezza un po’ nauseante che associamo al consumo di qualche sostanza stupefacente. Torniamo quindi alla vertigine: l’altalena dei dati, la girandola delle notizie (attendibili e fake), il bungee-jumping dei provvedimenti, di aperture e chiusure, l’abuso di opinioni, meme e complotti: cosa sono se non una ilinx continua? Riusciamo a distaccarcene?

domenica 12 aprile 2020

It only ends once

Il protrarsi del lockdown sta comprensibilmente facendo saltare i nervi a più di qualcuno, ma non tanto per il confinamento forzato, quanto per l’incertezza rispetto al futuro. È uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, quello di certezza, quello di sapere “come andrà a finire”. È bisogno di polarizzazioni in cui prendere posizione, è bisogno di poter dire che tutto avviene per una ragione, e questa ragione è con certezza – e magari con semplicità – riconoscibile, che quello che accade ha – in escalation – una causa efficiente, un qualche responsabile, un colpevole.
Non è ammissibile – o comunque non è tollerabile per un tempo troppo prolungato – non riuscire a riconoscere quale parte sia meglio prendere, a quale schieramento aderire, a chi affidarci per sentirci parte di un qualcosa di più grande – fosse anche il principio della totale autodeterminazione del singolo.


Vogliamo poter dire live together die alone oppure every man for himself, vogliamo poterci dire uomini di scienza o uomini di fede, leader pastorali oppure cacciatori – in poche parole, vogliamo poter veder bene la linea di demarcazione tra le dicotomie che caratterizzano la nostra vita, e che sono state – almeno a giudizio di chi scrive, cfr. la vigilia della sesta stagione, una Passione di dieci anni fa – il leitmotiv di Lost.


- They come. They fight. They destroy. They corrupt. It always ends the same.
- It only ends once. Anything that happens before that is just progress

Lo scambio tra Jacob e suo fratello rappresenta perfettamente la madre di tutte le dicotomie: il tempo è ciclico o è lineare? Finisce sempre allo stesso modo oppure c’è un progresso, un cambiamento? Siamo vincolati a un destino di lotta, distruzione e corruzione, oppure siamo liberi di pensare una fine diversa, magari catalizzata da un fattore imprevisto, imponderabile?
Il virus è – materialmente e metaforicamente – l’imponderabile, il caso che non si può governare, la mutazione non prevista dal sistema, e che lo manda in crisi.
Il sistema in cui ci troviamo (o almeno, ci trovavamo fino a un mese fa) è basato sul presunto irrevocabile primato dell’economia capitalistica, che non ammette alternative e che quindi ritiene possibile solo un riproporsi dei suoi modi e dei suoi ritmi: da qui l’accento sulla ripartenza, sulla riapertura, sul riprendere il ciclo preesistente di lavoro-produzione-consumo. Non è pensabile niente al di fuori di questa ciclicità, e non è un caso che l’economia capitalistica sia quanto di più deterministico la mente umana abbia mai concepito. L’economia aziendale contemporanea – ormai ovunque adattata anche alla gestione della cosa pubblica – ha ammesso una certa dose di indeterminazione, ma sempre con l’obiettivo di quantificare i rischi, renderli prevedibili e mitigarli con mezzi statistici. Ma il virus è una pallina della roulette, non è un cavallo su cui puntare: il caso che rappresenta è totalmente libero, puro e irriducibile.
Non è neppure questione di ottimismo o pessimismo nei confronti del genere umano: si potrebbe pensare che il determinismo sia pessimista, che consideri l’essere umano e la società inevitabilmente votati all’annientamento, e che quindi richieda controllo sociale, diretto o indiretto, statale o contrattuale, da Hobbes, passando per Locke, a Bentham (udite udite) – ma si può sostenere altrettanto a ragione che il determinismo sia ottimista, che una mano invisibile conduca l’umanità al benessere della maggior parte delle persone, in modo efficiente, basta non limitarne la libera iniziativa, la libera circolazione, il libero scambio.


Non è determinista solo il liberismo, specie nella sua accezione contemporanea di realismo capitalista: lo è (stato) anche il socialismo, più o meno reale – con una sfumatura più ottimista – ma lo sono stati anche i fascismi – con una sfumatura più pessimista.
Il dibattito che imperversa in Italia, al netto degli interventi ripugnanti di chi cerca solo un po’ di visibilità per non cadere nell’oblio, è tra due determinismi: uno più controllante e uno più libertario, ma pur sempre due determinismi. C’è chi si appella al primato del politico e chi a quello del tecnicismo scientifico, ma sono – anche qui – due determinismi che si illudono di poter prevedere gli sviluppi della situazione, e che attribuiscono all’uno o all’altro dei propri appigli la possibilità di far tornare sui binari della normalità la vita individuale e comunitaria.
Ma il virus è una pallina della roulette: non puoi prevedere se e quando uscirà il numero su cui hai puntato, nemmeno la dozzina, nemmeno il colore. Lo stillicidio dei dati sulla pandemia ci dimostra ogni giorno di più (ma ieri in modo particolarmente frustrante) che non esiste un modello previsionale adeguato, sulla base del quale acconsentire a riaperture anche solo parziali o a riprese di attività, caldeggiate da chi non ha altro paradigma interpretativo della realtà che non sia quello economico.
Jacob sceglie Jack, il Fumo Nero sceglie Locke, ognuno per far valere la propria idea. Ma la vera variabile impazzita è Desmond, non a caso campione di distanziamento sociale: inserire questo fattore casuale nel quadro d’insieme scompagina completamente la disputa.


E infine, il passaggio di testimone da Jack a Hurley rappresenta una modifica sostanziale del modo di gestire le cose. The new man in charge rappresenta il vero superamento del determinismo, nell’accogliere – a malincuore, controvoglia, contro qualsiasi previsione – una missione che il senso comune ritiene impossibile. Hugo è lo hobbit che porta a compimento l’impresa che nessun grande uomo è in grado di realizzare, la follia che acceca l’occhio del nemico, il fattore che cambia davvero il paradigma, che genera il nuovo che non era stato ancora immaginato.
È uno Hurley che stiamo aspettando: lo sapremmo riconoscere?

venerdì 27 marzo 2020

Rispolverare la lavagna...

Prima che qualche giorno fa Faramir "rispolverasse" la nostra Lavagna, aggiornandola di nuovi contenuti, un po' come si fa a scuola tra un'ora e l'altra per permettere l'avvio di una nuova lezione, si potevano leggere, ormai più di un lustro fa, su questa bacheca post centrati sul dibattito intorno al finale di Lost, in particolare sulla deriva che ne aveva preso la scrittura.



Oggi, dunque, grazie a Faramir, diventa assai stimolante ritornare a riflettere su ciò che in fondo (seppur nel passare delle stagioni televisive con inaccettabili tradimenti da parte degli sceneggiatori e di abbandoni delusi da parte di più di qualche fan) tanto ci aveva conquistato, entusiasmato, illuso e... e poi aggiungete il vostro aggettivo preferito legato al campo semantico del sogno.

clicca qui se vuoi ripercorrere la vicenda


Tali sfolgoranti premesse che, seppur in modo contraddittorio ci hanno condotto per mano fino alla sesta stagione e al suo finale visionario, permettendo così agli sceneggiatori di spaziare dalle sublimi vette di puntate memorabili su amore e spazio tempo a digressioni francamente inutili su tatuaggi e fenomeni paranormali, sono così riassumibili: creare una comunità è una necessità umana, sia per sopravvivere nella vita terrena che per vivere oltre la morte. E senza una vera cooperazione tra tutti non è possibile farlo, altrimenti vivere insieme senza una vera consapevolezza della comunità ci farà ineluttabilmente solo morire da soli.



Il 23 maggio 2010 andò in onda in contemporanea mondiale l'ultima puntata di Lost. A dieci anni di distanza mi ritrovo a rispolverare la lavagna...


... per ritornare a riflettere (il nostro pensiero) e soprattutto a scegliere come declinare concretamente (le nostre azioni) la nostra idea di cooperazione... in giornate come queste non mi sembra poca cosa...



... per vivere insieme e non morire da soli...



... l'aula è (ri)aperta a tutti.


giovedì 26 marzo 2020

A notebook from the Pearl Station


Quello che stiamo osservando nei comportamenti delle persone durante il lockdown – il tutto mediato da schermi, come se fossimo nella Stazione Perla – è significativo dell’epoca che abbiamo vissuto finora e che sta rapidamente volgendo al termine. Sovrastimolata e eccitata da anni da una quantità non gestibile di informazioni, la mente umana – quella di ciascuno e quella collettiva – si ritrova di fronte ad un abbassamento forzato del ritmo, alla prospettiva deprimente di non poter più correre come il sistema le ha imposto di fare*, alla frustrazione di non poter (illudersi di) controllare tutte le istanze della propria vita privata/lavorativa/comunitaria. Si ritrova, in altri termini, di fronte a quella che Bifo Berardi chiama psicodeflazione. E allora cerca in tutti i modi di tenersi impegnata, riproducendo a livello domestico i ritmi e la struttura multitasking della sua vita pre-lockdown.
Già abbiamo detto di smart-working e videochiamate, ma riflettiamo su quanto sia aumentata la produzione e diffusione di meme, opinioni, audio e video virali, bufale e fake news in questi giorni. Un numero spropositato di persone ha più tempo da riempire, con gli unici canali di comunicazione con l’esterno basati su internet. Quindi alla sovrastimolazione informativa e alla minaccia di psicodeflazione reagisce con una sovrapproduzione di contenuti (propri o altrui, poco importa) per far sapere al mondo che esiste.


Questa sovrapproduzione viene accompagnata dall’illusione di rendersi utile alla propria comunità, illusione che nel fate girare trova la sua locuzione-chiave: non essendo istituzioni riconosciute, i singoli vogliono essere utili diffondendo informazioni che paiono tali, ma senza verificarle, perché l’attention span si è troppo abbassato e si è persa la capacità di una verifica delle fonti che non sia – quando va bene – superficiale. Quindi è sufficiente che il contenuto pervenga da una fonte conosciuta e apprezzata perché possa essere rilanciato senza ulteriori controlli: è il confirmation bias come regola.
Se prima del lockdown le persone avevano meno tempo, venivano quindi bersagliate da meno informazioni, e – pur affette da confirmation bias (tutti lo siamo) – potevano contrastarlo, oggi lo stesso confirmation bias è divenuto endemico, grazie alla fretta di condividere informazioni, attraverso cui sentirsi impegnati e utili.
Ad aggravare il fenomeno c’è anche la tendenza a voler essere non solo impegnati e utili, ma anche voci critiche e argute – in parole molto povere, a volersi dimostrare più furbi degli altri: probabilmente questa è una tendenza solo italiana, ma la rete è invasa da dubitatori in servizio permanente effettivo, che – all’insegna del non ne parla nessuno – generano contenuti apparentemente controcorrente, originali e stimolanti una riflessione critica, ma che riproducono spesso il complottismo più becero e dannoso.
È evidente che qualcuno può agevolmente cercare di avvantaggiarsi di questo meccanismo, sia per monetizzare questa aumentata propensione ad abboccare al click-bait, sia per consolidare o recuperare posizioni nel consenso popolare, in barba a qualunque senso civico (o responsabilità personale, a dirla tutta). È possibile sperare che questa forma di sciacallaggio abbia vita ancora breve, senza dubbio, ma il trend di esasperazione dei rapporti personali e sociali è crescente, e non è detto che abbia miglior gioco chi lo cavalca, invece di chi cerca di smorzarlo, magari ammettendo i propri errori di valutazione iniziale.


È un luogo comune che nelle crisi le persone diano il meglio e il peggio di sé: l’estremizzazione delle caratteristiche personali – positive e negative – è in effetti osservabile nelle situazioni al limite. Osservarla in prossimità del limite strutturale della capacità cognitiva della mente individuale e collettiva fa ancora più impressione. Come farà impressione, alla fine di questa vicenda, all’alba del mondo che ne emergerà, il cimitero dei nostri post – vani come i quaderni della Stazione Perla ammassati a valle della posta pneumatica dell’Isola, guardati dai losties.


* Naturalmente non tutti siamo costretti in casa, molti sono costretti fuori – chi perché impegnato a livello sanitario nell’arginare l’emergenza, chi perché ancora operativo in settori produttivi ritenuti essenziali per l’economia. E per queste persone – che magari vorrebbero restare a casa, almeno per un po’ – vale tutt’altro discorso, perché sottoposti a stress di altra natura: non è questo il tema dei nostri appunti.


lunedì 16 marzo 2020

Memories from the Hatch

Se ci avessero detto, quindici anni fa, che per giorni e giorni (e senza una prospettiva chiara sul per quanto tempo) avremmo dovuto fare la vita di Desmond, probabilmente avremmo riso. Non rientrava nel nostro orizzonte una crisi globale tale da cambiare davvero le nostre abitudini di vita – addirittura, non si poteva immaginare che l’unico modo per superare una tale crisi fosse rinunciare al testardo attaccamento alle quotidiane abitudini consolidate. Del resto, che cosa faceva Desmond per trascorrere le sue giornate interminabili nella Stazione Cigno? Proseguiva attività fisiche e intellettuali come se fosse tutto normale – e inseriva numeri su una tastiera, sempre gli stessi, sempre ogni 108 minuti, come se fosse fondamentale per la sopravvivenza della specie umana.


Da allora, una crisi globale c’è stata, eppure il sistema ha fatto in modo che ne uscissimo aumentando l’intensità del nostro impegno lavorativo e comunicativo, abbassando la prevedibilità dei nostri ritmi produttivi (qualcuno direbbe precarizzando ogni forma di lavoro), erodendo il tempo libero e lo spazio dedicato davvero alla vita privata in nome del work-life balance (di fatto, estendendo il tempo-lavoro a tutta la giornata solare), imponendoci di essere a disposizione sempre e comunque per cogliere le occasioni lavorative, facendo di tutti i lavoratori (anche quelli che imprenditori non sono mai stati e non vogliono esserlo) degli imprenditori di se stessi (abusando peraltro di un concetto nobile della cooperazione). In questo, un ruolo-chiave lo hanno avuto i social network, che – lungi dall’essere un sistema di comunicazione puramente conviviale – si sono evoluti in arene per il personal branding, creando l’illusione che tutti possano essere influencer e quindi essere seguiti con interesse da qualcuno per cui creare valore aggiunto. Il quarto d’ora di celebrità di Andy Warhol si è rapidamente ridotto ai pochi secondi di un video di TikTok, coerentemente con il calo dell’attention span delle generazioni attive sui social – correlato, a parere di chi scrive, con l’endemicità dei disturbi dell’attenzione.
Si tratta del processo più rapido e incisivo di privatizzazione che si sia mai visto: Mark Fisher – non a caso suicida nel 2017 – parla di privatizzazione dello stress, perché lascia l’individuo solo con le sue preoccupazioni, angosce, delusioni (#maiunagioia), speranze continuamente disattese (come uno scommettitore incallito), abbandonato anche da un welfare che, se non può più essere di Stato, non riesce nemmeno ad essere comunitario. Sicuramente nel Regno Unito e negli Stati Uniti questa deriva è più antica (i danni del thatcherismo si sono accentuati e non certo attenuati nei quarant’anni ormai trascorsi, e il trumpismo non ne è che il succedaneo involgarito), ma se guardiamo all’Italia – in cui fino a nuovo ordine alcuni diritti sono ancora tali – l’evoluzione del welfare in piattaforme, possibilmente online, di incontro di domanda e offerta non è altro che la trasformazione del sistema di interventi e servizi sociali in un mercato letteralmente neoliberista.
Pertanto, tutto il mondo che è uscito dalla crisi finanziaria del 2008-09 è un mondo ancora più capitalista – nonostante la crisi sia stata la manifestazione più chiara degli errori e dei falsi miti del capitalismo – un mondo che simula felicità, attivismo ed entusiasmo per la miriade di possibilità che ci offre il capitalismo delle reti e delle piattaforme, grazie a quella sorta di programmazione neurolinguistica basata sull’ossessiva ripetizione del concetto che non c’è alternativa.


E invece l’alternativa c’è, ed è questo il momento per riconoscerla. La pandemia in corso, e i provvedimenti conseguenti, ci mettono in condizione di sperimentare ritmi e relazioni totalmente differenti dal consueto. Il lockdown, termine tanto caro a noi losties, ci impone delle restrizioni al lavoro, al movimento e alla socialità: non sono limitazioni fasciste alle libertà personali, magari usate ad arte dall’establishment per controllarci – come qualche miope filosofo ha provato a sostenere sul Manifesto, evidentemente più attento all’ortodossia ideologica che alla lettura del dato di realtà. L’establishment ha tutto l’interesse acché lavoro, produzione e consumo continuino il più indisturbati possibile, ed è riprova di questo interesse il criminale ritardo con cui stati nazionali come Regno Unito, Stati Uniti e Francia stanno adottando provvedimenti restrittivi già operativi in Italia. Il ritardo criminale nel voler riconoscere la gravità della situazione si vede bene anche in provvedimenti e dichiarazioni di organizzazioni transnazionali – UEFA  e BCE per dirne due – e nei deliri complottisti di sostenitori Q-like dell’establishment medesimo, deliri che hanno oggi una cassa di risonanza mai ottenuta prima.
Ma anche in Italia l’atteggiamento è quello ben sintetizzato dallo slogan “Andrà tutto bene”, come a dire: vedrete che tutto tornerà come prima, resistiamo a questo momento, non potrà che tornare tutto come prima, meglio di prima. L’ottimismo come oppio del popolo: ottundere le masse con la promessa di vincere, lo stesso dispositivo che funziona sui ludopatici. Strategico, in questa dinamica, è il ruolo di internet. Con una rete che funziona, possiamo illuderci che andrà davvero tutto bene: possiamo continuare ad andare in ufficio – soprattutto gli addetti a quelli che David Graeber chiama bullshit jobs – a studiare – sulle mille piattaforme all’uopo predisposte – a socializzare – grazie alle videochiamate, ormai feature più utilizzata dei social media: in sintesi, a lavorare, a produrre, a consumare.
Ma se invece non andasse tutto bene?
Per usare un meme molto in voga in questi giorni, quello con il Marty Feldman di Frankenstein Junior:


Proviamo a pensare come sarebbe questa clausura senza l’accesso al web – se per qualche motivo (anche solo perché non abbiamo i soldi per rinnovare i nostri Giga) non ci fosse consentito libero accesso alla rete, o peggio se internet diventasse un bene rivale, oltre che escludibile.
Non si vuole qui dipingere uno scenario apocalittico, bensì provare a riflettere su un futuro diverso da quello che ci viene promesso, un futuro in cui i ruoli dello Stato, del privato e della comunità siano davvero ridisegnati dallo stato di necessità, introdotto da questo lockdown e che potrebbe farsi più serio nel medio periodo.
Proviamo a immaginare, per la prima volta dopo tanti anni, un futuro. Usciamo dal tunnel della distopia e dell’ucronia – i sottogeneri della fantascienza oggi più in voga, non a caso – e pensiamolo davvero, con paradigmi nuovi, senza nostalgie bucoliche e luddiste, ma anche senza l’illusione che tutto possa tornare come prima della pandemia.
Il tema-chiave è quello della ricchezza, oggi non equamente distribuita non solo a livello globale, ma anche a livello di società di una singola nazione, quando non al livello della singola organizzazione. La vulgata del realismo capitalista (altro topos di Mark Fisher) ci ha convinto che questa iniquità è inevitabile e incontrovertibile.
Il futuro che potremmo provare a immaginare, invece, non dà per scontato questo assunto, e anzi vuole ribaltarlo, insieme a quello di scarsità (presupposto teorico dell’economia capitalista). Beni e servizi ci sono per tutti: è ciò che il capitalismo ritiene efficiente che non è equo. L’idea di equità che oggi tutti danno per scontata è quella meritocratica – ma è un concetto ideologico, tanto quanto quella per uguaglianza, tipica del socialismo reale (ma con residui consistenti nella pubblica amministrazione e in ciò che resta dei sindacati).
È possibile pensare un’idea di equità basata su una redistribuzione diversa della ricchezza? È possibile pensare un assetto della società, una configurazione nuova di Stato, Mercato e Terzo settore, che consenta l’applicazione di tale idea di equità?
È possibile pensare un futuro in cui lo Stato sappia farsi carico dei bisogni dei suoi cittadini e – pur senza gestire direttamente tutti i servizi – si occupi responsabilmente della redistribuzione della ricchezza, senza affidarsi alla mano invisibile del Mercato?
Ma soprattutto: chi potrebbe impegnarsi nella costruzione di una nuova società, fondata su questo paradigma davvero alternativo per la prima volta in almeno trent’anni?
Paradossalmente, gli stessi nativi digitali a cui oggi si tende ad attribuire potenzialità enormi (come nel caso del fenomeno dei Fridays for Future) sono ormai troppo condizionati dall’uso della tecnologia (mezzo principale di privatizzazione dello stress, ricordiamolo) e privi di qualsivoglia coscienza collettiva (di classe, di partito, di movimento) per farsi carico di una simile rivoluzione.
Forse solo chi è nato da poco o deve ancora nascere potrà crescere in un contesto radicalmente cambiato e dare alla società una seconda possibilità. Forse solo a chi nasce sull’Isola, su questa isola che nessuno di noi ha saputo prevedere, è data la possibilità di pensare questo futuro.


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