sabato 17 ottobre 2009

Zeitgeist

Uno dei motivi per i quali Lost affascina tanto in profondità coloro che riescono ad andare al di là dell'apparente astrusità della trama, è il suo essere uno dei rappresentanti più maturi, se non il più completo, di quello che potremmo chiamare lo spirito dei tempi delle narrazioni contemporanee. Dando uno sguardo a film e telefilm che oggi occupano la ribalta mediatica statunitense e - per estensione imperialistica - di tutto il mondo occidentale, è facile cogliere un tema dominante nelle trame, almeno di quei prodotti che per comodità chiamiamo fantastici o fantascientifici, ma che di fatto contengono le riflessioni più ricche e sfidanti sull'oggi, dal punto di vista etico, politico, filosofico. Parliamo del tema banalmente detto destino vs. libero arbitrio, ossia quello che riguarda la dialettica tra libertà e necessità, tra la possibilità di costruire il proprio futuro e l'ineluttabilità di un destino già scritto. In Lost è diventato, nelle ultime due stagioni, il leitmotiv principale - che in The Incident è culminato nel confronto tra Jacob e il suo antagonista nerovestito e nel cliffhanger sull'esplosione della bomba - ma era, abbiamo visto, presente in nuce fin dal pilot. Ma, lasciando l'Isola, è qualcosa di più di una coincidenza l'uscita simultanea di un Terminator: Salvation e di uno Star Trek made in Abrams che parlano sostanzialmente della stessa cosa, così come non è un caso che al Life on Mars inglese seguano remake in USA, in Spagna e prossimamente in Italia. Non è solo legato al successo di Lost l'interesse destato da Flashforward, il suo erede designato, che affronta programmaticamente ed esclusivamente questo tema, mentre è legato solo alla totale atipicità del prodotto l'insuccesso dell'eccezionale Kings, che vede - coerentemente con la sua ispirazione biblica - una lotta costante tra l'uomo e Dio proprio in merito al realizzarsi delle profezie. Infine - ma gli esempi potrebbero andare avanti a lungo - sta forse nell'aver colto questo spirito dei tempi il relativo successo di un Defying Gravity, che per altri versi è più 'leggerino' e meno epocale, almeno rispetto ad un pilot di Virtuality, che è grande televisione, ma fuori tempo massimo come tema, e dunque un fallimento prima ancora di essere messo in onda.
Perché Virtuality è fuori tempo massimo, mentre Defying Gravity no, quando sembrano parlare della stessa cosa? Perché il nuovo prodotto di Ron D. Moore ha scelto come tema principale quello che era lo spirito dei tempi alla fine del XX secolo, cioè la fallacia della realtà che percepiamo. Negli ultimi anni 90 tanti prodotti cinematografici e televisivi hanno rappresentato questo zeitgeist: il culmine è senz'altro Matrix, quasi gnostico nella sua sfiducia nei confronti della realtà percepita, ma possono essere tranquillamente citati - tutti usciti nel giro di pochi anni - The Truman Show di Peter Weir, Dark City di Alex Proyas, Abre los ojos di Alejandro Amenàbar, Harsh Realm di Chris Carter... tutti fondati sulla scoperta, da parte dei protagonisti e/o degli spettatori, del fatto che la realtà che percepiscono non è quella vera. Orbene, Virtuality poteva essere il Lost di fine millennio, se solo fosse uscito dieci anni prima.
Qual è stato il momento di passaggio tra questi due temi portanti? Quale l'opera che meglio rappresenta la fine dell'uno e l'inizio dell'altro? Azzardiamo un titolo, per un motivo che sarà chiaro guardando le date e le circostanze per cui è divenuto un cult movie: Donnie Darko. Oltre ad essere un chiaro ispiratore di Lost fino al livello delle scelte registiche, il film di Richard Kelly contiene entrambi i leitmotiv: la realtà che il protagonista percepisce è dubbia, come minimo, e il loop in cui si ritrova (o che crea, secondo alcune letture della trama) è una manifestazione del contrapporsi di libertà e necessità, di caso e finalismo. Ma soprattutto, Donnie Darko è del 2001: il cominciare con un aereo che distrugge una casa non lo ha favorito, nei confronti di un pubblico colpito dalle immagini del 9/11, ed è circolato quasi di soppiatto per alcuni anni, riemergendo grazie al passaparola per assurgere allo status - meritato - di film di culto. L'11 settembre è forse la chiave: la paura, il senso di insicurezza, il desiderio di tornare indietro ed evitare quello che è accaduto (si legga in proposito Stanlio e Ollio, terror detectives di Valerio Evangelisti), lo struggersi per una seconda possibilità, la volontà di trovare un senso in eventi che paiono non averne affatto, tutto ciò ha segnato il mondo occidentale a partire da quella data, e forse è penetrato nelle trame di film e telefilm come ciò che più si accorda con la sensibilità del pubblico odierno. Con lo spirito dei tempi, appunto.

1 commento:

  1. “Uno dei motivi per i quali Lost affascina tanto in profondità coloro che riescono ad andare al di là dell'apparente astrusità della trama, è il suo essere uno dei rappresentanti più maturi, se non il più completo, di quello che potremmo chiamare lo spirito dei tempi delle narrazioni contemporanee.”

    Nel citarlo, sottoscrivo in pieno l’incipit di Faramir, ribadendo la mia convinzione – per chi ha già avuto modo di conoscerla visto che è la prima volta che scrivo – che Lost si propone come racconto epico (un'Odissea moderna se vogliamo) e che, come tutti i racconti epici che si rispettino, abbia il compito di intrattenere in modo intelligente (tanto per riprendere Aldo Grasso) e intrigante.

    Il Bene contro il Male, il Destino contro il Libero Arbitrio, la Cooperazione contro l’Autodeterminazione, ma – a mio modesto avviso - la Vita contro la Morte soprattutto, sono da sempre i dualismi (i manicheismi mi viene da scrivere) alla base di tutte le grandi Storie (e religioni).
    Con il finale di quinta stagione Lost sembra, almeno a livello di suggestioni, aver decisamente enfatizzato il dualismo Vita/Morte:
    - Jacob e il suo antagonista si misurano in un dialogo di “bergmaniana” memoria;
    - Jacob sembra ridare o, diversamente, danneggiare la vita di alcuni dei nostri eroi;
    - Ben fa il sicario per conto di Locke;
    - Locke appare vivo e morto.
    Mi fermo qui: la sesta stagione ha ancora da venire e soprattutto, come ogni grande storia che si rispetti, l'agnizione avviene o si convalida solo alla fine.

    Per chiudere condivido con voi - quelli che avete avuto la bontà e la pazienza di leggere fin qui questo mio primo post - le mie suggestioni (lostiane, se mi è concesso come aggettivo qualificativo), nella speranza che tali suggestioni non diventino inutili tormentoni.
    In fin dei conti la bella storia è quella sempre attuale, quella che suscita, in ogni tempo (!) domande appassionanti: penso ogni tanto, come tutti voi, ai molti enigmi, alle molte allusioni, alle molte “piste perdute” che rendono Lost un telefilm “mitico”:
    - un tempio, chiuso all'interno dell'isola, e una statua sulla spiaggia, rivolta verso il seppur lontano mondo esterno;
    - tante comunità che, in un tempo sempre più spezzettato e frammentario ma non per questo meno vivibile, si sovrappongono, scontrano e mescolano;
    - la cenere, che brucia nel braciere di Jacob, pronta a essere sparsa “chissaddove” e soprattutto “chissapperché”;
    - una “trama”, simbolo per eccellenza del dipanarsi/intrecciarsi del racconto epico, forse simile ad un disegno già esistente, che viene tessuta con pazienza, probabilmente in modo diverso, su ambo i contrapposti fronti;
    - leaders che, a vari livelli, si fronteggiano, nell'attesa del grande duello al quale Ben fa riferimento parlando di buoni e di cattivi;
    - un fumo nero che non sembra essere padrone dell'isola, ma che ne incarna in qualche modo la volontà, la brutalità, ma soprattutto – a mio avviso - la memoria;
    - i nostri eroi che, come gli umani dell'epica classica, fronteggiano forze a loro superiori e in gran parte sconosciute, continuando però a giocare un ruolo fondamentale in questa partita (tanto che Jacob – anche se non ci è dato ancora sapere di preciso in quale timeline - interviene sui loro destini, ergo sulla loro vita e sulla loro morte).

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