Se parlare qui di Dune (il romanzo, il film di Villeneuve, ma anche quello – mancato – di Jodorowsky e quello – inclassificabile – di Lynch) può apparire fuori luogo (un blog legato a Lost) e fuori tempo (a parte la possibile tempestività rispetto all’uscita dell’opera di Villeneuve), ricordiamoci che only fools are enslaved by time and space e prendiamoci un pizzico di spezia per viaggiare tra i mondi possibili.
Il primo romanzo del ciclo di Dune (la cui sola prima metà è
visibile in questi giorni al cinema – e va vista e sentita al cinema,
poche storie) esce nel 1965 ed è un’opera seminale in molte direzioni, in gran
parte colte però solo da chi lo ha letto. Al di là dell’influenza diretta su
vari universi narrativi fantastici (Star Wars in primis), è un’opera che tratta
tematiche filosofiche, politiche e anche ecologiche molto attuali, con una
preveggenza che ha dell’inquietante. Sicuramente deve molto, come tutte le
narrazioni mitologiche, ad archetipi antichissimi – primo fra tutti il tema
messianico – ma li rielabora con una originalità e una profondità rare,
immergendoli in un dettagliatissimo mondo futuro (attenzione, è il 10191 dalla
fondazione della Gilda Spaziale, a sua volta collocabile tra il 12000 e il
14000 dopo Cristo: il futuro di Dune è lontano oltre ventimila anni) che per
accuratezza ha come solo precedente la Terra di Mezzo.
Meriterebbe una riflessione
il fatto che il Professor Tolkien non apprezzasse affatto Dune (grazie a Glorfindel per
la dritta), cosa che per chi scrive è risultata destabilizzante quasi quanto il
fatto che Mark Fisher non apprezzasse Lost, ma sarà per un’altra volta.
Lo stesso Lost deve più di qualcosa a Dune, in particolare nella bellissima puntata 4x09, The Shape of Things to Come, in cui (come cercavo di raccontare in un vecchio Lostbooks) Ben Linus si ritrova a impersonare una sorta di Paul Atreides per l’Isola/Arrakis con tanto di evocazione del Fumo Nero/Shai-Hulud.
C’è da sperare davvero nel successo della pellicola di
Villeneuve, sia perché ciò consentirebbe il proseguimento della narrazione
(oltre alla serie sulle Bene Gesserit, almeno un altro film per Dune, un
altro ancora per Messia di Dune?), sia perché indurrebbe molti a leggere
finalmente Frank Herbert – un po’ come accadde per Tolkien vent’anni fa (venti anni?!) dopo
la visione de La Compagnia dell’Anello.
Ma perché Dune parla così bene al nostro oggi? Sicuramente la
messa in scena dello sfruttamento delle risorse naturali di un pianeta,
dell’oppressione di popolazioni autoctone e del loro desiderio di riscatto,
delle dispute tra potentati economici e dell’uso politico di credenze
filosofiche e religiose, dello spregio per la vita umana a favore del profitto,
ebbene, è qualcosa che ci tocca da vicino – e Villeneuve lo fa con fedeltà alla
lettera del romanzo, che a sua volta descrive dinamiche presenti da sempre
nella storia umana (e che negli anni Sessanta, a un osservatore attento come
Herbert, già mostravano le possibili derive che oggi vediamo disgregare il
tessuto comunitario delle nostre società). Mondi possibili che – collocati nel
lontano futuro – descrivono mirabilmente il nostro angosciante presente.
C’è però un tema che fa da sfondo al romanzo, ma che è appena sfiorato dal film in questi giorni in sala, che dice qualcosa di più sull’oggi e che si colloca tra il religioso e il tecnologico. È quello delle ‘macchine pensanti’, contro cui – oltre diecimila anni prima della storia di Paul Atreides – si scatena il Jihad Butleriano (palesemente un riferimento a Erewhon di Samuel Butler, distopia del 1872), una rivolta degli esseri umani, già diffusi su molti mondi, contro le intelligenze artificiali diventate ormai troppo potenti. In Dune, come si nota bene anche dal design delle produzioni cinematografiche (più barocco quello di Lynch, quasi steampunk quello di Villeneuve), non ci sono computer, la tecnologia è molto meccanica e per nulla informatica: anche il viaggio spaziale avviene per la combinazione di conoscenze fisiche e prassi quasi mistiche legate all’uso della Spezia. La computazione rapida non è affidata alle macchine ma ai Mentat, persone appositamente addestrate per fare a meno di intelligenze artificiali (non nominati come tali, se ne vedono almeno due nel film di Villeneuve, uno che opera per gli Atreides e uno per gli Harkonnen). La stessa religione dell’Impero, coagulata nella Bibbia Cattolica Orangista (testo sacro sincretistico), contiene il comandamento Non costruirai una macchina a somiglianza della mente di un uomo.
Sulla Terra di oggi, quanto affidiamo alle ‘macchine
pensanti’? Quanto sono determinanti gli algoritmi per le nostre scelte
quotidiane e per la formazione di comprensione e giudizio rispetto ai fatti del
mondo? Quanto siamo davvero liberi di prendere una strada piuttosto di
un’altra, dalla più banale delle scelte di acquisto al più complesso dilemma
etico? Quanto le intelligenze artificiali ci allontanano o ci avvicinano –
senza che ce ne rendiamo conto, anzi magari gratificati dalla non-scelta – a persone
delle nostre cerchie sociali (non solo social, beninteso)? Quanto siamo
capaci di immaginare mo(n)di diversi da quelli a cui siamo abituati, senza che
la nostra immaginazione sia predeterminata o condizionata da dispositivi
tecnologici?
Il comandamento supremo della Bibbia Cattolica Orangista è Non sfigurare la tua anima, mentre la Litania Bene Gesserit recita Non devo aver paura, la paura uccide la mente, la paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale (è quella che tiene in vita Paul durante la prova del Gom Jabbar). Le macchine pensanti (leggi: gli algoritmi a cui affidiamo le nostre scelte, i nostri gusti, la nostra stessa capacità di desiderare – pensiamoci: desiderio, de sidera, nostalgia delle stelle) fanno leva sulla paura e sfigurano l’anima, le fanno perdere identità, annullano completamente la persona per renderla un flusso manipolabile di dati, un avatar da posizionare in una scacchiera. Pensiamo alla questione divisiva per eccellenza di questi nostri tempi: quanto viene invocata – a comando, paradossalmente – la libertà? Quanto viene strumentalizzata la paura? Quanta responsabilità hanno gli algoritmi nel creare bolle, fronti contrapposti, frantumazione dei legami comunitari? A proposito di responsabilità, come è possibile fare in modo che questi soggetti non umani rispondano effettivamente di quanto operano in una società?
È il tempo di un Jihad Butleriano? O forse solo di una grande rivolta per tornare a fare le nostre scelte liberi da condizionamenti deresponsabilizzanti? Rivolta, rivolgimento, rivoluzione – non ripresa, ripartenza, riproposizione del già visto, già noto, già pensato (da altri).
Le playlist autocompilate uccidono la mente. Non dobbiamo
avere paura.
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