giovedì 26 marzo 2020

A notebook from the Pearl Station


Quello che stiamo osservando nei comportamenti delle persone durante il lockdown – il tutto mediato da schermi, come se fossimo nella Stazione Perla – è significativo dell’epoca che abbiamo vissuto finora e che sta rapidamente volgendo al termine. Sovrastimolata e eccitata da anni da una quantità non gestibile di informazioni, la mente umana – quella di ciascuno e quella collettiva – si ritrova di fronte ad un abbassamento forzato del ritmo, alla prospettiva deprimente di non poter più correre come il sistema le ha imposto di fare*, alla frustrazione di non poter (illudersi di) controllare tutte le istanze della propria vita privata/lavorativa/comunitaria. Si ritrova, in altri termini, di fronte a quella che Bifo Berardi chiama psicodeflazione. E allora cerca in tutti i modi di tenersi impegnata, riproducendo a livello domestico i ritmi e la struttura multitasking della sua vita pre-lockdown.
Già abbiamo detto di smart-working e videochiamate, ma riflettiamo su quanto sia aumentata la produzione e diffusione di meme, opinioni, audio e video virali, bufale e fake news in questi giorni. Un numero spropositato di persone ha più tempo da riempire, con gli unici canali di comunicazione con l’esterno basati su internet. Quindi alla sovrastimolazione informativa e alla minaccia di psicodeflazione reagisce con una sovrapproduzione di contenuti (propri o altrui, poco importa) per far sapere al mondo che esiste.


Questa sovrapproduzione viene accompagnata dall’illusione di rendersi utile alla propria comunità, illusione che nel fate girare trova la sua locuzione-chiave: non essendo istituzioni riconosciute, i singoli vogliono essere utili diffondendo informazioni che paiono tali, ma senza verificarle, perché l’attention span si è troppo abbassato e si è persa la capacità di una verifica delle fonti che non sia – quando va bene – superficiale. Quindi è sufficiente che il contenuto pervenga da una fonte conosciuta e apprezzata perché possa essere rilanciato senza ulteriori controlli: è il confirmation bias come regola.
Se prima del lockdown le persone avevano meno tempo, venivano quindi bersagliate da meno informazioni, e – pur affette da confirmation bias (tutti lo siamo) – potevano contrastarlo, oggi lo stesso confirmation bias è divenuto endemico, grazie alla fretta di condividere informazioni, attraverso cui sentirsi impegnati e utili.
Ad aggravare il fenomeno c’è anche la tendenza a voler essere non solo impegnati e utili, ma anche voci critiche e argute – in parole molto povere, a volersi dimostrare più furbi degli altri: probabilmente questa è una tendenza solo italiana, ma la rete è invasa da dubitatori in servizio permanente effettivo, che – all’insegna del non ne parla nessuno – generano contenuti apparentemente controcorrente, originali e stimolanti una riflessione critica, ma che riproducono spesso il complottismo più becero e dannoso.
È evidente che qualcuno può agevolmente cercare di avvantaggiarsi di questo meccanismo, sia per monetizzare questa aumentata propensione ad abboccare al click-bait, sia per consolidare o recuperare posizioni nel consenso popolare, in barba a qualunque senso civico (o responsabilità personale, a dirla tutta). È possibile sperare che questa forma di sciacallaggio abbia vita ancora breve, senza dubbio, ma il trend di esasperazione dei rapporti personali e sociali è crescente, e non è detto che abbia miglior gioco chi lo cavalca, invece di chi cerca di smorzarlo, magari ammettendo i propri errori di valutazione iniziale.


È un luogo comune che nelle crisi le persone diano il meglio e il peggio di sé: l’estremizzazione delle caratteristiche personali – positive e negative – è in effetti osservabile nelle situazioni al limite. Osservarla in prossimità del limite strutturale della capacità cognitiva della mente individuale e collettiva fa ancora più impressione. Come farà impressione, alla fine di questa vicenda, all’alba del mondo che ne emergerà, il cimitero dei nostri post – vani come i quaderni della Stazione Perla ammassati a valle della posta pneumatica dell’Isola, guardati dai losties.


* Naturalmente non tutti siamo costretti in casa, molti sono costretti fuori – chi perché impegnato a livello sanitario nell’arginare l’emergenza, chi perché ancora operativo in settori produttivi ritenuti essenziali per l’economia. E per queste persone – che magari vorrebbero restare a casa, almeno per un po’ – vale tutt’altro discorso, perché sottoposti a stress di altra natura: non è questo il tema dei nostri appunti.


2 commenti:

  1. Forse non siamo ancora ai livelli della stazione Perla, in quanto la circolazione in Rete è sempre molto fitta e si auto rigenera, mentre in Lost tutto sembrava finire nel Nulla assoluto.
    Qui sembra essere in ballo piuttosto l'inutilità di certa comunicazione che finisce (purtroppo ahimè) ad essere funzionale semplicemente a riempire un vuoto che si crea nel tempo delle nostre giornate, il vuoto di un tempo che ci sfugge sempre più di mano, perché siamo sempre meno capaci di attribuirgli un nostro di senso.

    Concludendo e virando un po' nel mio discorso... paradossalmente il senso più importante che noi attribuiamo al comunicare finisce per essere la mera comunicazione in sé (individuale o collettiva che sia, diretta stile tweet o di rimbalzo stile retweet che sia) quasi a giustificare il nostro ruolo e la nostra presenza nel "villaggio globale" (termine oltretutto forse inadeguato a definire con la stessa precisione di qualche anno fa il nostro oggi...).

    E tutto questo ci (rin)chiude, come dici tu, nella nostra stazione Perla, convinti della bontà della nostra comunicazione e convinti (o illusi se preferite) di vivere al meglio il nostro tempo personale.

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  2. E per quanto la voglia di raccontare stimolata dall'iper catastrofe leggete https://www.filmtv.it/post/38279/un-film-su-di-noi/#commentiutm_source=nl-977&utm_medium=email

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