Parliamo della delusione, prima che della vertigine: emerge in questi giorni, significativamente da realtà e tribune anche molto lontane tra loro, eppure in modo sincronico, un sentimento di disillusione, il tentativo di frenare facili entusiasmi o vaticini apocalittici. Due esempi su tutti.
Two players, two sides – one is light, one is dark
Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo, scrive Lorenzo Marsili in un articolo molto affascinante, che tenta anche di rilanciare in chiave ottimistica il concetto di ‘fantascienza del presente’. Il progresso non fa salti quantici ma procede lungo un continuum, al paradigma della crisi va sostituito quello della lisi - che pure contiene elementi sia di cura che di decadimento – la novità si diffonde come un sapore in bocca, non arriva come un muro verso lo schianto contro il quale l’umanità procede inarrestabile.
Non ci sveglieremo, dopo il lockdown, in un mondo nuovo, scrive da par suo Michel Houellebecq; sarà lo stesso, solo un po’ peggio. L’autore francese, ormai quindici anni fa, pubblicò il romanzo La possibilità di un’isola (guarda caso) in cui si immaginava – ma l’idea era presente fin da Le particelle elementari – che parte del genere umano si sarebbe evoluta verso il completo isolamento e la rarefazione dei contatti interpersonali (dall’abolizione di quelli fisici alla scomparsa anche di quelli online), per riprodursi asetticamente per clonazione, eliminando sentimenti ed emozioni, e lasciando il resto dell’umanità alla regressione animalesca. Un postumanesimo che in realtà vediamo già efficacemente all’opera grazie a innovazioni più o meno significative (acquisti online e pagamenti contactless, video-on-demand e social network, smart working e servizi di messaggistica, …), e che i provvedimenti emergenziali per la pandemia in corso non hanno fatto altro che accentuare e accelerare.
Ancora due determinismi, uno ottimista e uno pessimista: uno che cerca di modificare i coefficienti dell’equazione di Valenzetti, come la Dharma Initiative sull’Isola, per allontanare la fine del genere umano, e uno che ritiene che la fine sia inevitabilmente quella – con le caratteristiche del lamento e non del boato, naturalmente. Entrambi i determinismi si sono resi conto che non è vero che nulla sarà più come prima: sarà tutto come prima, se non peggio – più o meno precipitosamente a seconda di come operiamo nel presente.
Utopia e ingegneria sociale nella Dharma Initiative
È possibile reimmaginare il presente? Abbiamo visto come il realismo capitalista di cui parla Mark Fisher ci abbia messo nelle condizioni di considerare inevitabile e incontrovertibile quello che stiamo vivendo nel tardo capitalismo, e quindi di non saper immaginare un futuro che non sia una mera variazione sul tema del presente e del recente passato (un eterno oggi che è descritto, non immaginato, da letteratura, cinematografia e televisione della distopia): il nostro desiderio è senza nome. Ma è possibile reinventare il presente? Non è forse il senso originario dell’utopia?
È possibile una eu-topia che non sia ou-topia? Qualcosa che non sia proiettato in un futuro che non riusciamo a pensare o in un passato sempre più vago e consolatorio?
Il molo di Pala
Senza scomodare Aldous Huxley, che – insieme a una delle più famose distopie – ci ha lasciato anche una utopia del presente, guarda caso intitolata L’Isola (omaggiata da Lost con il nome del molo usato dagli Altri), abbiamo qualche testimonianza nella storia recente della capacità dell’uomo di coesistere con altri uomini senza che gli esiti siano invariabilmente sperequazione, sfruttamento, sopraffazione, annientamento? Un libro di Rutger Bergman, di imminente pubblicazione, ci racconta la ‘vera storia del Signore delle Mosche’: il caso di sei ragazzi tongani naufragati su un’isola del Pacifico nel 1966, dove rimasero per quindici mesi costituendo una società egalitaria e solidale, tutto il contrario di quanto descritto nel romanzo di Golding – a sua volta una delle massime ispirazioni per Lost – paradigmatico nella sua disillusione nei confronti del genere umano. È un fatto documentato, contro l’apoditticità della teoria. È un indizio – non certo la prova – che qualcosa può essere cambiato, qui e ora?
Forse. Non si può replicare al determinismo con formule altrettanto nette. Non ci sono soluzioni analitiche per le vicende umane, solo approssimazioni. Eppure ci piace pensare che – se a quei ragazzi, across the sea, è riuscito un esperimento sociale su cui hanno dibattuto per secoli filosofi e scienziati – potrebbe riuscire anche all’umanità del post–Covid-19. Che ci sia la possibilità, in quest’isola. Non ci resta che provarci, empiricamente.
A che gioco giochiamo?
Ma non si era detto che il virus era il caso, l’azzardo estremo, l’imponderabile? Il dado, l'alea di cui non possiamo prevedere i movimenti? Lo è, ma il gioco che stiamo vivendo in questa fase è più simile alle montagne russe, agli sport estremi, all’ebbrezza un po’ nauseante che associamo al consumo di qualche sostanza stupefacente. Torniamo quindi alla vertigine: l’altalena dei dati, la girandola delle notizie (attendibili e fake), il bungee-jumping dei provvedimenti, di aperture e chiusure, l’abuso di opinioni, meme e complotti: cosa sono se non una ilinx continua? Riusciamo a distaccarcene?
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