domenica 26 settembre 2021

We must not fear

Se parlare qui di Dune (il romanzo, il film di Villeneuve, ma anche quello – mancato – di Jodorowsky e quello – inclassificabile – di Lynch) può apparire fuori luogo (un blog legato a Lost) e fuori tempo (a parte la possibile tempestività rispetto all’uscita dell’opera di Villeneuve), ricordiamoci che only fools are enslaved by time and space e prendiamoci un pizzico di spezia per viaggiare tra i mondi possibili.

Il primo romanzo del ciclo di Dune (la cui sola prima metà è visibile in questi giorni al cinema – e va vista e sentita al cinema, poche storie) esce nel 1965 ed è un’opera seminale in molte direzioni, in gran parte colte però solo da chi lo ha letto. Al di là dell’influenza diretta su vari universi narrativi fantastici (Star Wars in primis), è un’opera che tratta tematiche filosofiche, politiche e anche ecologiche molto attuali, con una preveggenza che ha dell’inquietante. Sicuramente deve molto, come tutte le narrazioni mitologiche, ad archetipi antichissimi – primo fra tutti il tema messianico – ma li rielabora con una originalità e una profondità rare, immergendoli in un dettagliatissimo mondo futuro (attenzione, è il 10191 dalla fondazione della Gilda Spaziale, a sua volta collocabile tra il 12000 e il 14000 dopo Cristo: il futuro di Dune è lontano oltre ventimila anni) che per accuratezza ha come solo precedente la Terra di Mezzo.

Meriterebbe una riflessione il fatto che il Professor Tolkien non apprezzasse affatto Dune (grazie a Glorfindel per la dritta), cosa che per chi scrive è risultata destabilizzante quasi quanto il fatto che Mark Fisher non apprezzasse Lost, ma sarà per un’altra volta.

Lo stesso Lost deve più di qualcosa a Dune, in particolare nella bellissima puntata 4x09, The Shape of Things to Come, in cui (come cercavo di raccontare in un vecchio Lostbooks) Ben Linus si ritrova a impersonare una sorta di Paul Atreides per l’Isola/Arrakis con tanto di evocazione del Fumo Nero/Shai-Hulud.

C’è da sperare davvero nel successo della pellicola di Villeneuve, sia perché ciò consentirebbe il proseguimento della narrazione (oltre alla serie sulle Bene Gesserit, almeno un altro film per Dune, un altro ancora per Messia di Dune?), sia perché indurrebbe molti a leggere finalmente Frank Herbert – un po’ come accadde per Tolkien vent’anni fa (venti anni?!) dopo la visione de La Compagnia dell’Anello.

Ma perché Dune parla così bene al nostro oggi? Sicuramente la messa in scena dello sfruttamento delle risorse naturali di un pianeta, dell’oppressione di popolazioni autoctone e del loro desiderio di riscatto, delle dispute tra potentati economici e dell’uso politico di credenze filosofiche e religiose, dello spregio per la vita umana a favore del profitto, ebbene, è qualcosa che ci tocca da vicino – e Villeneuve lo fa con fedeltà alla lettera del romanzo, che a sua volta descrive dinamiche presenti da sempre nella storia umana (e che negli anni Sessanta, a un osservatore attento come Herbert, già mostravano le possibili derive che oggi vediamo disgregare il tessuto comunitario delle nostre società). Mondi possibili che – collocati nel lontano futuro – descrivono mirabilmente il nostro angosciante presente.

Facciamo due conti

C’è però un tema che fa da sfondo al romanzo, ma che è appena sfiorato dal film in questi giorni in sala, che dice qualcosa di più sull’oggi e che si colloca tra il religioso e il tecnologico. È quello delle ‘macchine pensanti’, contro cui – oltre diecimila anni prima della storia di Paul Atreides – si scatena il Jihad Butleriano (palesemente un riferimento a Erewhon di Samuel Butler, distopia del 1872), una rivolta degli esseri umani, già diffusi su molti mondi, contro le intelligenze artificiali diventate ormai troppo potenti. In Dune, come si nota bene anche dal design delle produzioni cinematografiche (più barocco quello di Lynch, quasi steampunk quello di Villeneuve), non ci sono computer, la tecnologia è molto meccanica e per nulla informatica: anche il viaggio spaziale avviene per la combinazione di conoscenze fisiche e prassi quasi mistiche legate all’uso della Spezia. La computazione rapida non è affidata alle macchine ma ai Mentat, persone appositamente addestrate per fare a meno di intelligenze artificiali (non nominati come tali, se ne vedono almeno due nel film di Villeneuve, uno che opera per gli Atreides e uno per gli Harkonnen). La stessa religione dell’Impero, coagulata nella Bibbia Cattolica Orangista (testo sacro sincretistico), contiene il comandamento Non costruirai una macchina a somiglianza della mente di un uomo.

Sulla Terra di oggi, quanto affidiamo alle ‘macchine pensanti’? Quanto sono determinanti gli algoritmi per le nostre scelte quotidiane e per la formazione di comprensione e giudizio rispetto ai fatti del mondo? Quanto siamo davvero liberi di prendere una strada piuttosto di un’altra, dalla più banale delle scelte di acquisto al più complesso dilemma etico? Quanto le intelligenze artificiali ci allontanano o ci avvicinano – senza che ce ne rendiamo conto, anzi magari gratificati dalla non-scelta – a persone delle nostre cerchie sociali (non solo social, beninteso)? Quanto siamo capaci di immaginare mo(n)di diversi da quelli a cui siamo abituati, senza che la nostra immaginazione sia predeterminata o condizionata da dispositivi tecnologici?

Non osare staccare lo sguardo da quello smartphone

Il comandamento supremo della Bibbia Cattolica Orangista è Non sfigurare la tua anima, mentre la Litania Bene Gesserit recita Non devo aver paura, la paura uccide la mente, la paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale (è quella che tiene in vita Paul durante la prova del Gom Jabbar). Le macchine pensanti (leggi: gli algoritmi a cui affidiamo le nostre scelte, i nostri gusti, la nostra stessa capacità di desiderare – pensiamoci: desiderio, de sidera, nostalgia delle stelle) fanno leva sulla paura e sfigurano l’anima, le fanno perdere identità, annullano completamente la persona per renderla un flusso manipolabile di dati, un avatar da posizionare in una scacchiera. Pensiamo alla questione divisiva per eccellenza di questi nostri tempi: quanto viene invocata – a comando, paradossalmente – la libertà? Quanto viene strumentalizzata la paura? Quanta responsabilità hanno gli algoritmi nel creare bolle, fronti contrapposti, frantumazione dei legami comunitari? A proposito di responsabilità, come è possibile fare in modo che questi soggetti non umani rispondano effettivamente di quanto operano in una società?

È il tempo di un Jihad Butleriano? O forse solo di una grande rivolta per tornare a fare le nostre scelte liberi da condizionamenti deresponsabilizzanti? Rivolta, rivolgimento, rivoluzione – non ripresa, ripartenza, riproposizione del già visto, già noto, già pensato (da altri).

Le playlist autocompilate uccidono la mente. Non dobbiamo avere paura.

mercoledì 4 agosto 2021

2004 - 2010 - 2021 - Continuano e si accelerano le tappe del nostro viaggio nel tempo

La recente uscita al cinema di “Old” per la regia di M. Night Shyamalan non può certo lasciare indifferenti i lettori della Lavagna. Perché? Cercherò di spiegarlo (brevemente) a partire da tre essenziali (ma corpose) premesse.


1) Trama e note su regia e cast di “Old” - Tredici persone si ritrovano (solo in apparenza casualmente) su una misteriosa spiaggia per trascorrere le loro vacanze. Ben presto, però, nell’isola si manifesta qualcosa di innaturale che fa sì che qualsiasi forma di vita invecchi rapidamente.

Il regista è anche il sceneggiatore del film, film che prende il la da “Sandcastle”, la graphic novel creata dalla penna di Pierre Oscar Levy e di Frederik Peeters.

Shyamalan traspone fedelmente la vicenda sul grande schermo nel cuore del film, apportando con la propria inventiva i necessari adattamenti nella premessa e nel finale, dando così una propria precisa cifra (un'analisi ironica, critica e profondamente filosofica della società, intuendone la "medicalizzazione" e la "de-presentificazione" ben prima del Covid come spiega bene Roy Menarini) a tutta la vicenda.

“Old” vede come protagonisti Gael Garcia Bernal (star di Mozart in the Jungle), Vicky Krieps (protagonista de Il filo nascosto), Alex Wolff, Thomasin McKenzie, Eliza Scanlen, Rufus Sewell, Embeth Davidtz, Aaron Pierre, Abbey Lee, Nikki Amuka-Bird, Emun Elliott e Ken Leung (il Miles Straume di Lost) ed è prodotto dallo stesso Shyamalan.


2) Il cinema di Shyamalan, un cinema sempre meno capito perché sempre più confrontato solo con i gusti del pubblico – Il noto regista ha da anni la possibilità di girare i suoi film sceneggiandoli e producendoli da sé e crede fortemente nel registro fiabesco per veicolare i suoi personali e sempre più incompresi o forse poco apprezzati/condivisi messaggi sulle prospettive del nostro mondo attuale. Questo fa sì che una fetta crescente del pubblico si sia legato indissolubilmente ai capolavori del passato, vivendo con insofferenza la libertà e la creatività che il regista si è sempre di più ritagliato.

Cosa aspettarsi da un film che parte come Fantasy Island e man mano che procede assimila in sé deboli eco dei momenti meno convincenti di Lost? Probabilmente nulla di buono, ma a scrivere e dirigere Old c’è, uno al quale il beneficio del dubbio viene sempre concesso anche nel momento in cui si è consapevoli che il suo genio è stato spesso controbilanciato da scelte cinematografiche di dubbio gusto […] The Visit e soprattutto il successivo Split fanno però nuovamente ben sperare che quella macchina oliatissima fedele al credo di un horror da briciole di pane disseminate possa realmente tornare ai fasti di un tempo. Glass e il suo (forzato) universo narrativo scricchiola ed è un nì, chiuso nei riverberi di un passato che adombra il presente e che con Old fa cadere nuovamente nello sconforto chi sperava un ritorno ai vecchi fasti.

http://www.anonimacinefili.it/2021/07/21/old-shyamalan-spiegazione-significato-finale/


3) Non tutto va letto in chiave Covid, d’accordo. Ma l’ultimo film di M. Night Shyamalan, piaccia o no, ci rimette di fronte al loop che abbiamo vissuto per un anno (anzi, due). E in cui siamo dentro ancora - (Mattia Carzaniga)

La pandemia ha fortemente complicato la lavorazione del film, per cui molte delle critiche sul valore strettamente cinematografico non sono campate per aria, a partire dalla direzione degli attori, ma sicuramente ha impresso alla pellicola un surplus di valore di significato (semantico) non trascurabile: basti solo pensare a come Shyamalan lavora sui bambini, privati dell'infanzia e costretti a crescere in un tempo a cui non è quasi più possibile dare un valore. Molto bello, a mio parere, il modo in cui l’amicizia tra bambini, rivesta un ruolo chiave nel film, in quanto fonte di salvezza.

Ci sono infine (disseminati qua e là ma facilmente riconoscibili) una serie di pseudo/para “easter egg” molto gustosi dedicati al cinema (il quiz cinematografico delirante, il binocolo e l’improvvisa apparizione del “regista”... che a Faramir potrebbe anche ricordare qualcos’altro di molto misterioso legato a una vecchia foto) e al Covid (il dottore del quale è bene non fidarsi, il medicinale dal nome doppio) che danno al film uno spessore ironico importante per controbilanciare la tensione horror.


In breve, quindi, consiglio “Old” ai lettori della Lavagna perché i temi trattati nel film sono molto vicini a quelli di "Lost" e ne sono quasi una naturale evoluzione/aggiornamento alla luce della recente pandemia, con tanto di esplicita e trasparentissima citazione proprio all’inizio del disvelamento finale.

In conclusione, vedere questo film, che come "Lost" sa giostrare sui personaggi e sul loro vissuto, sa giocare (certamente non sempre in modo perfetto) con gli stessi elementi fondamentali (la spiaggia, la fuga, il tempo, la necessità/difficoltà/impossibilità di cooperare) non può che ridarci fiducia in quello che in fin dei conti cerchiamo su questa Lavagna nelle note di chi scrive e nell’affetto di chi legge: la bellezza di raccontare un presente sempre più incomprensibile (o forse non accettato), cercando magari una nuova epica e una nuova mitologia attraverso storie come quella di "Lost" o di "Old" che, pur tra mille imperfezioni e approssimazioni, sappiano cogliere e dare emozione e voce (per i più ottimisti anche senso) al nostro smarrimento nel nostro quotidiano viaggio nel tempo.


domenica 23 maggio 2021

How to let go

A distanza di undici anni dal finale di Lost, al quale chi scrive ha assistito in un’aula universitaria – a mo’ di appendice ad un corso al quale aveva contribuito pochi mesi prima con due lezioni proprio sulla serie – si è manifestata la curiosità di conoscere l’opinione di un accademico eretico come Mark Fisher, spesso citato su questa Lavagna, su Lost.

Undici anni fa, Univr

Mark Fisher (1968-2017) è uno dei più lucidi interpreti della realtà contemporanea, segnata dal neoliberismo compiuto, per cui scrive – in Realismo capitalista – “il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è il consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine”. La lucidità che lo ha portato a togliersi la vita a nemmeno cinquant’anni si è manifestata in saggi (comunemente ascritti alla theory fiction), articoli e soprattutto post sul suo blog k-punk, che Minimum Fax sta progressivamente pubblicando, raccogliendoli tematicamente. Gli interessi di Mark Fisher si sono spesso focalizzati sulle manifestazioni della cultura popolare: musica, cinema, televisione, calcio, con frequenti incursioni proprio a proposito delle serie televisive. 
Ma Mark Fisher ha mai scritto di Lost? Anche attraverso la consultazione di lettori, esegeti o semplicemente fan dell’autore, raccolti nel gruppo Facebook Mark Fisher Memes for Hauntological Teens – incidentalmente, un uso eretico del social network che meglio esemplifica le rovine del tardo capitalismo – non si è riusciti a trovare un-articolo-uno dedicato a quella specifica serie. Eppure, ci si è detto, non può essergli sfuggita l’occasione di dire qualcosa su un testo così ricco di spunti politici e filosofici, dalla così tante possibili letture. 

Lost futures

Un podcaster scozzese, Angus Stewart, ad esempio ha fatto notare come tutto quanto riguarda la Dharma Initiative rivesta – se non a livello politico, almeno a quello hauntologico – un interesse prettamente fisheriano: l’utopismo hippie che sopravvive ben oltre l’epoca storica di appartenenza, il sinistro ruolo (aziendalista/capitalista) della Hanso Foundation, l’utilizzo di diversi media e formati, congelati nel tempo, mescolati e impiegati per finalità imperscrutabili (i video di Orientamento, i dischi in vinile, la torre radio, i computer anni '80…). La Dharma Initiative resta uno degli elementi chiave del leitmotiv politico di Lost – cooperazione vs. competizione – in quanto la sua visione e i suoi obiettivi sono proprio un futuro perduto alla Fisher. 

Reaching out for a better tomorrow

Proprio quando ci stavamo rinunciando definitivamente, chi scrive ha trovato – giusto nell’ultimo volume per ora pubblicato in Italia di Mark Fisher, Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione. K-punk/2 – quello che pare essere l’unico riferimento a Lost nel magmatico corpus fisheriano: un articolo del 2015 su New Humanist a proposito di The Leftovers, Broadchurch e The Missing. Nella parte dedicata alla serie – basata sul romanzo di Tom Perrotta – che dobbiamo proprio a Damon Lindelof (curiosamente, nell’articolo originale e nella traduzione italiana, il cognome è sbagliato in due modi diversi: Lindelhof e Lindnhof), si legge: 

Lost si è trovato gradualmente invischiato in una rete sempre più estesa di misteri nascosti, che alla fine hanno assunto i contorni della parodia e a dare l’impressione di essere stati inseriti al solo fine di mandare avanti la storia, senza la possibilità di essere spiegati in modo soddisfacente. 

Possibile che un’opinione di Mark Fisher sia così superficiale? Proprio colui al quale attribuiamo approfondimento mai banale e efferatezza analitica può essersi macchiato di tale pigrizia intellettuale?

Mark Fisher, da un lato, risente della sindrome del defunto giovane, dai seguaci (come dai parenti, in ambito familiare) idealizzato – e quasi santificato – per le sue sole caratteristiche positive, trascurando (disvedendo, direbbe China Miéville) i tratti umani, meschini, o anche solo apparentemente incoerenti della sua storia. Dall’altro, Lost è una serie che non necessariamente si inserisce in modo decisivo nella storia personale di tutti i suoi spettatori: è corretto ammettere che qualcuno possa averla abbandonata, presto o tardi, comunque prima della fine, perché non gli/le parlava (più). 
Probabilmente è questo il caso di Fisher: è improbabile che abbia guardato Lost fino alla fine (non avrebbe mancato di cogliere il nesso, proprio in quell’articolo, proprio titolato così, con il senso ultimo della serie di Lindelof e Cuse), basandosi per quell’inciso su impressioni colte da altri (e che dobbiamo ammettere legittime), senza ritenere necessario un approfondimento personale. 


È significativo che queste due consapevolezze – Mark Fisher non è infallibile, il non apprezzare Lost non è una colpa – arrivino insieme, a undici anni dal finale. Forse è davvero il momento di farsene una ragione e andare avanti. Ma di ricordare, sempre.

martedì 16 marzo 2021

The tide is turning

Se si è in grado di non ascoltare il rumore di fondo del chiacchiericcio giornalistico e di quello social – che si amplificano a vicenda per raggiungere ormai lo sciacallaggio – o se comunque si riesce ad aumentare il rapporto segnale/rumore per cogliere le trasformazioni dello spirito del tempo, quel mutamento nella direzione del vento che scorre oltre le skinner box della comunicazione di massa, ci si rende conto che qualcosa sta effettivamente cambiando.

È vero che le narrazioni distopiche sono ancora molto di tendenza, è vero che l’apocalisse informativa veicolata dalla pandemia sembra non lasciarci via d’uscita, è vero che il proliferare – anche quello virale – di voci disperanti e disperate anche all’interno delle nostre bolle social (da cui, come in una gabbia della Stazione Hydra, sembra impossibile uscire) sembra ci dica che non c’è domani. Eppure ci sono segnali che stiamo effettivamente uscendo dal decennio della melanconia, per entrare in quello della guarigione.


Melancholy in a Skinner Box


Il decennio della melanconia è cominciato proprio con Melancholia, di Lars Von Trier, che giusto dieci anni fa dipingeva una letterale fine del mondo, ad opera di un pianeta carico di paura, depressione, disillusione. E' il decennio del recupero e della riproposizione di tutte le peggiori distopie in letteratura, cinema, televisione. E' il decennio in cui la hauntologia è assurta a paradigma definitivo di lettura della realtà, assediata dai fantasmi del futuro immaginato una volta e mai realizzato, se non per imitazione, campionamento, remix e avvitamento del tempo su sé stesso.

Il decennio della melanconia faceva seguito a quello della seconda possibilità, quello cominciato con il 9/11 e Donnie Darko, quello che ha avuto in Lost e Battlestar Galactica le narrazioni più significative. L'ultimo decennio del secolo XX, invece, è stato quello della fallacia della realtà, con tutte le narrazioni gnostiche come Matrix, The Truman Show e Dark City.

Perché diciamo che questo 2021 potrebbe segnare l'inizio di uno nuovo zeigeist? La nostra non è forse una pia illusione, del wishful thinking che fa il paio con le illusioni - quando non le allucinazioni - di QAnon?

Un indicatore del fatto che qui non si sta delineando una narrazione salvifica, con al centro personaggi più o meno di rilievo ai quali affidare il futuro, è che la tendenza di cui parliamo è collettiva e dialogica. Non c'è colui che ci salverà tutti, siamo noi che guariremo insieme. 


Ille qui nos omnes servabit


Segnali che qualcosa sta cambiando li possiamo trovare nell'utopia di Yanis Varoufakis, Another Now, oppure in quel capolavoro - che già su questa lavagna abbiamo collegato per molti versi a Lost - che è Dispatches from Elsewhere. Li troviamo nell'affermarsi progressivo anche in Italia del sottogenere della fantascienza noto con il nome di Solarpunk, cui Delos Books ha appena dedicato la collana Atlantis. Ma li troviamo in tutto il dibattito sulle piattaforme e sulla possibilità di ripensare questi costrutti digitali che si collocano tra mercato, contratto e impresa - ma anche oltre essi - in chiave cooperativistica e non meramente estrattiva (nel senso, marxianamente, dell'estrazione di plusvalore) - sulla possibilità che davvero all those kids in the sun - come cantava Roger Waters una vita fa - possano 'strappare la spada della tecnologia dalle mani dei signori della guerra'.


I'm not saying that the battle is won


E' ingenuo questo ottimismo, questa idea che la rotta possa cambiare? 

Parlando proprio di melanconia in un'interessantissima trasmissione di BBC Radio 4, l'autore inglese Horatio Clare (che chi scrive ha avuto l'onore di conoscere sull'erba di un campo da gioco) ha parlato del suo breakdown di due anni fa, oggetto - insieme alle conseguenze, che inclusero l'internamento in una struttura psichiatrica, ma anche un percorso di terapia basata sul dialogo che revoca in dubbio tutti gli assunti, ancora piuttosto incrollabili nel mondo anglosassone, sull'indispensabilità dei farmaci - del suo nuovo libro Heavy Light. Uno degli interlocutori della trasmissione gli ha obiettato che una crisi così non va intesa necessariamente nel modo negativo implicato dal termine breakdown, ma va presa nell'accezione piena di potenzialità di breakpoint, punto di rottura - ma anche rottura di livello, cambio di paradigma.

La pandemia è un game-changer di questo tipo? E' questo il momento di guarire, ma non da soli.

 



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