Il 6 giugno, fra una settimana per chi scrive, esce per i tipi di Mariner Books BURN IT DOWN: Power, Complicity, and a Call for Change in Hollywood di Maureen Ryan, articolista di cultura pop per Vanity Fair. La rivista ha pubblicato ieri sul proprio sito un estratto dal libro, con il titolo Lost Illusions: The Untold Story of the Hit Show’s Poisonous Culture.
È il capitolo su Lost, e si è abbattuto come una bomba sul pubblico, in particolare quello costituito dagli appassionati della serie – e che alla serie hanno dedicato tempo, energie, spesso anche sforzo apologetico. È questo il motivo di un articolo che su questa Lavagna non era così ‘tempestivo’ da tredici anni, cioè dall’indomani del finale di serie. Tempestivo non vuol dire irriflessivo, ma è comunque necessario per fare ordine nei pensieri di chi, come chi scrive, ne sentirà ben presto di cotte e di crude sul tema, molto probabilmente da chi della serie sa poco o nulla e che vuole sfruttare l’onda dello scandalo che inevitabilmente il libro, e quel capitolo in anteprima, sta già generando.
Rimandiamo alla lettura del pezzo in questione per condividere
la scoperta – francamente agghiacciante – delle dinamiche tossiche della writers' room di Lost, caratterizzate da razzismo, sessismo, bullismo e nonnismo sistematici,
da parte di chi quella stanza guidava, e che – fraintendendo in modo più o meno
consapevole il proprio ruolo manageriale – ha vessato, messo in fuga oppure
direttamente licenziato chi in quella stanza operava (gli altri sceneggiatori,
soprattutto le donne) e chi da quella stanza veniva dotato di copioni e linee
narrative da interpretare (gli attori, soprattutto i non bianchi).
Stiamo parlando, ebbene sì, di Damon Lindelof e Carlton Cuse, i famigerati Darlton, da noi affettuosamente chiamati il Gatto e la Volpe. Mai avremmo pensato che il nomignolo fosse così appropriato, per una coppia di showrunner che molti spettatori considerano un vero e proprio oracolo della narrazione televisiva e che invece – poco interessa chi più chi meno – ha abusato del proprio potere e manipolato persone e situazioni al fine di consolidare la propria posizione. Non ci avremmo mai pensato perché, come anche l’autrice del volume e della requisitoria conviene, Lost ha un cuore pulsante, vivo, che parla di seconde possibilità e di redenzione, di comunità e di ricerca di senso – e se chi mette in moto quel cuore vive la negazione di quelle stesse pulsazioni, ebbene, non sappiamo più a cosa credere.
Oppure, banalmente, siamo vittima del disincanto e
sviluppiamo uno sguardo ancora più cinico sulla realtà, soffocando una specie
di senso di ingiustizia con considerazioni qualunquistiche tipo ‘è il mondo
dello spettacolo, che cosa credevamo?’
Oppure ancora, cediamo a quella forma posticcia di reincanto
che sono le fantasie di complotto e ci chiediamo – con l’aria di quelli a cui non
la si fa – perché queste notizie escono proprio adesso? Cui prodest?
Sarà un caso che sia in corso uno sciopero degli sceneggiatori e questa bomba
non faccia altro che screditare quelli (come Damon Lindelof) che oggi sono ai
picchetti?
Una cosa non è in discussione: i fatti. Perché comunque ci
sono nomi e cognomi: sceneggiatori che hanno preferito restare anonimi e nomi ‘pesanti’
come quello di Javier Grillo-Marxuach (a cui peraltro dobbiamo pressoché
interamente la Lost Experience), attori di cui si immaginano le
generalità e figure identificate fin da subito come Harold Perrineau. Che
raccontano una storia davvero sgradevole, che fa l’effetto delle riprese con
telecamera nascosta nelle caserme o nelle case di qualche confraternita universitaria,
durante i riti di iniziazione delle matricole. I brividi, appunto.
Ci sono anche le dichiarazioni dei due principali imputati:
dirette quelle di Damon Lindelof, via agente quelle di Carlton Cuse; che
ammettono un fallimento quelle del primo, che contestano la veridicità delle testimonianze
quelle del secondo; forse a indicare una differenza di responsabilità tra l’uno
e l’altro, chissà. Il problema è che comunque, anche se Damon ammette le
proprie colpe, c’è al fondo una falsa credenza: quella secondo cui talento e
umanità siano mutualmente esclusivi, per cui essere un genio comporta in
qualche modo essere un mostro. E l’omertà diventa un requisito fondamentale per
aspirare ai livelli più alti (del processo creativo, in questo caso).
Ci si rimane male, anche solo a pensare a quelli che ci
diranno ‘hai visto che gente hai difeso in tutti questi anni?’. Ci si chiede,
col senno di poi, se in The Leftovers, in Watchmen e nel
recentissimo (e straordinario) Mrs. Davis Damon Lindelof abbia voluto espiare
in qualche modo i comportamenti riprovevoli messi in atto a partire da quasi
vent’anni fa, o se – per crudele ironia – anche quelle writers' room
siano state pervase dalla stessa tossicità, pur trattando temi così umanamente
sfidanti.
Ci si chiede anche l’effetto che una cosa del genere – che ha
potenzialmente la portata di #MeToo – possa avere sul business, oltre che sulle
carriere delle persone coinvolte. È comunque qualcosa su cui non si può applicare
il Let Go, Move On di lostiana memoria, ma da cui si può partire per migliorare
ambienti, comportamenti e modelli dell’industria dell’intrattenimento. Perché
cose belle come Lost continuino ad essere prodotte, ma da processi più
umani.