La cifra esistenziale di questo passaggio al 2022, cavalcando l’ennesima ondata di Covid-19, è la fuga.
Fuga da cosa e, soprattutto, verso cosa? Rispetto agli effetti della pandemia sull’economia e sul lavoro, si osservano due direttrici principali, corrispondenti a due macrocategorie socio-economiche, sommariamente definibili come privilegiati e sfruttati.
I privilegiati, i big player del tardo capitalismo
(individui, società, governi) stanno preparando la fuga da un pianeta ormai inservibile
– nel senso di non più sfruttabile, da cui è impossibile estrarre ulteriore
plusvalore – a causa dei cambiamenti climatici, dell’esaurimento delle risorse,
della stessa pandemia (che rende difficile il lavoro e quindi la produzione, e
quindi il consumo e quindi la generazione di profitti). Non è un caso che
questi ultimi due anni abbiano visto una crescita così spedita dell’astronautica
privata: è così fantascientifico pensare che i ‘ricconi’ che investono nel
viaggio spaziale non si stiano solo togliendo uno sfizio turistico, ma stiano
piuttosto preparandosi una via di fuga (letterale) dalla Terra? A questo
proposito, il must-see-movie Netflix di fine 2021, Don’t Look Up (niente
di particolarmente epocale, probabilmente archiviabile in fretta, buono per effimere
polemiche social utili solo a chi ha finto di denunciarle) dice una cosa
interessante, con la fuga finale dei duemila ‘pezzi grossi’ che si conclude –
farsescamente, forse in modo un po’ banale – su un altro pianeta.
C’è poi chi la fuga la prepara – invece che verso un altro luogo del mondo fisico – verso un diverso piano di realtà, in direzione di quel metaverso che – lungi dall’essere una idea recente, basta leggere Snow Crash di Neal Stephenson, che è del 1992 – consente ai più misantropi dei big player di prosperare senza aver bisogno di un rapporto fisico con gli altri esseri viventi. Peraltro, il più grave degli effetti della pandemia sulle nuove generazioni è proprio quello di trasformarne una fetta enorme in hikikomori che non aspirano nemmeno più retoricamente al rapporto umano diretto, e quindi si adeguano volentieri alla dematerializzazione dei contatti – incidentalmente realizzando la profezia del Michel Houellebecq de Le particelle elementari e de La possibilità di un’isola, già qui evocato più volte a proposito della natura dell’Isola di Lost e delle aspirazioni degli Altri. Chi scrive ipotizzava, all’epoca della terza stagione di Lost, che gli Altri potessero essere artefici di un’analoga fuga verso un diverso piano (informatico, virtuale) di realtà, per staccarsi dal mediocre mondo materiale e sperimentare nuove forme di convivenza libere dal fardello del corpo fisico. I nessi, da un lato, con l’oggettivismo di Ayn Rand (specie quella di The Fountainhead), a sua volta ispiratrice del background del videogioco Bioshock, e, dall’altro, con il postumanesimo letterario e cinematografico, ci parevano abbastanza evidenti. Oggi quel podcast suona sicuramente datato rispetto a Lost, ma in qualche modo profetico rispetto alle evoluzioni sociali immaginate in epoche non sospette.
Anche gli sfruttati stanno pensando alla fuga, però. Una fuga dalle dinamiche sociali ed economiche che li rendono sfruttati, a partire dal lavoro. Almeno in Italia, l’aver preferito il green pass all’obbligo vaccinale tradisce la sudditanza del governo agli interessi del grande capitale industriale: viene ribaltata sul lavoratore la responsabilità di sottrarsi al ciclo produttivo, ma viene preservata la possibilità ai ‘padroni del vapore’ di far lavorare i fattori produttivi in barba ai rischi sanitari. I toni marxiani non suonino fuori tempo e fuori luogo: si sta osservando un inasprimento della conflittualità sociale, ma con la frammentazione, lo smembramento della classe subalterna, spaccata dalle parole d’ordine social, per cui si fa di tutte le voci critiche (sebbene articolate e complesse) un fascio di negazionisti e no-vax. Questo stesso capoverso, se letto con la superficialità imposta dai social network, potrebbe farne passare l'estensore per un no-vax, quando dovrebbe essere evidente che la critica è alla gestione politica della pandemia e non all'efficacia dei vaccini. Se a questo si aggiunge che molte voci storicamente critiche abboccano alla dialettica social e si prestano a un dibattito che tale non è – non si capisce se per senilità o ricerca di un nuovo posizionamento o, peggio, calcolo per trovare una via di fuga – anche chi dovrebbe risultare voce oppositiva fa il gioco della voce del padrone e polverizza la coscienza di classe. Quindi la pandemia ha reso difficile ma non impossibile lavorare, ha eroso le tutele con il ricatto del ‘se non vuoi lavorare ho qui il rimpiazzo’ ma chi vi si sottrae è additato come minimo come untore: che via di fuga c’è?
C’è chi si dimette e smette di lavorare, c’è chi smette di
idolatrare il lavoro e preferisce la frugalità in attesa del crollo del sistema
– sulle cui macerie può ricostruire. C’è chi propone le Comunità Autonome Operative per la Sopravvivenza (l’acronimo CAOS non è evidentemente casuale),
come forma di rassegnazione all’inevitabile conclusione di questo ciclo: una
rassegnazione che non è passiva ma che punta ad accelerare questa fine
attraverso l’abbandono del lavoro e il ritiro in comunità votate
all’autosussistenza. Il contrario dell’accelerazionismo alla Nick Land, una
pratica gnostica che punta a togliere gli argini al fallimento del sistema
capitalistico, smettendo di fare i katéchon dei tempi ultimi. Una delle
voci critiche (e oggi non più tali) di cui sopra è ricordato anche per aver chiesto nel
1993 a Giovanni Paolo II di smettere di fare il katéchon (cioè di fare
da freno alla venuta dell’Anticristo e quindi all’Apocalisse). Ebbene, col
senno di poi, questo appello non aveva a che fare con l’escatologia, ma forse
proprio con il destino della società capitalistica: Giovanni Paolo II ha fatto
(scientemente? Inconsapevolmente? Probabilmente il suo essere polacco in una
certa epoca storica ha contribuito) da freno alla caduta del capitalismo dopo
aver accelerato quella del socialismo reale. E lo ha fatto contribuendo in
maniera decisiva all’idolatria del lavoro attraverso il suo contributo alla Dottrina
sociale della Chiesa: nella Laborem exercens (1981) scrive
Il lavoro è un bene dell'uomo - è un bene della sua
umanità -, perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura
adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza sé stesso come uomo ed
anzi, in un certo senso, «diventa più uomo». (LE 9)
Il lavoro come qualcosa che fa diventare l’uomo ‘più uomo’, non più il ‘male necessario’ a cui la persona è condannata da Dio quando la caccia dall’Eden. E quindi chi non lavora, non produce, non trasforma la natura, è meno uomo? Quanto senso di colpa su chi non vuole lavorare viene proiettato da questo approccio – che è cristiano, ma è profondamente radicato nello spirito del capitalismo (non c’è bisogno di evocare Max Weber per rendersi conto che questo concetto è più protestante che cattolico)?
Togliere il freno alla caduta del capitalismo passa per la
fuga dal lavoro, ed è la via che soprattutto gli sfruttati (o comunque quelli
che tali si percepiscono, in quanto perennemente esclusi dai privilegi) stanno
prendendo in numero sempre maggiore. È la Great Resignation che sta facendo ‘fuggire
nei boschi’ tanti novelli Thoreau – paradossalmente è anche una fuga dalla
gabbia di Skinner dei social (ormai sempre più canili di Pavlov), quei social
che assomigliano al modello (Dharma-like) di Walden 2, ispirato – ma abbiamo
già visto in modo quanto fallace – dal primo Walden.