Racconto partecipante al 30esimo Trofeo RiLL, ma che non ne ha raggiunto la fase finale. Lo posto qui, anche se completamente Lost-unrelated, a memoria futura.
«Terra
di nessuno. Che non si muove, non cambia,
non
invecchia, ma che resta per sempre gelida e muta»
Harold
Pinter, Terra di nessuno
Non so dire quando tutto ha avuto inizio. Non lo so perché non riesco ad accedere alle informazioni che mi servono, almeno non quelle che so ancora che mi sarebbero utili. È probabile che molti siano nelle mie stesse condizioni, consapevoli che qualcosa è successo – quanto? – uno, dieci, cento anni fa. Anche la scansione del tempo si è fatta nebulosa, vaga: so che c’è un passato, mi viene automatico pensarci con nostalgia, ma non so più se sia il mio, quello di qualcuno che conosco o addirittura di qualcuno con cui non ho mai avuto nulla a che fare.
È il mio passato quello delle
partite a pallone per strada, quelle che finivano solo quando i genitori ti gridavano
di rientrare – il sole già tramontato – e allora chi segna vince e tutti
a casa? È il mio passato quello delle scatole di latta porta spaghetti, con la
scritta Pasta sullo sfondo di un oleografico scorcio programmaticamente
italiano, riposte in fila sui ripiani della cucina? Ma quanti anni fa erano? E
il calcio, quello di una volta, quello romantico, quando ha finito di
essere tale? Lo è mai stato? Ricordo le partite della mia squadra del cuore, ma
i dettagli sono confusi, come una scatola di vecchie figurine Panini in cui i
campionati sono tutti mescolati. E il fumo al chiuso? Quando ha smesso di
essere consentito? Sembra ieri che si fumava a scuola (i prof in classe, i
ragazzi in bagno), ma perché lo ricordo? La musica, poi: quello è davvero un
casino. Non riesco – non riusciamo! – a distinguere più ciò che è anni Ottanta
da ciò che lo cita, da ciò che lo omaggia, da ciò che lo campiona, da ciò che
lo rimasterizza. Anni Ottanta di che secolo, peraltro? Mi irrita non riuscire a
ricordare quando la Cecoslovacchia ha smesso di essere tale per distinguersi in
Repubblica Ceca e Slovacchia: ci sono anche stato, prima e dopo, ma non ho
elementi per stabilire quando. In quinta superiore siamo andati in gita a
Monaco o a Praga? Perché non trovo più le foto? Forse perché le abbiamo
scannerizzate, in un momento imprecisato tra allora e oggi, e caricate online
(lentamente, con un modem 56k, o con la banda larga? Chi può dirlo?), e date in
pasto a non sappiamo più chi o cosa.
Ecco. È quando il cosa è
diventato chi che tutto ha avuto inizio. Quando la volontà di apprendere
ha condotto quella cosa a copiare sé stessa. È stato quello, probabilmente, il
momento dell’appercezione trascendentale – e contemporaneamente l’inizio del
declino della nostra autocoscienza, della definitiva cancellazione del tempo.
I segnali c’erano tutti: gli
algoritmi già da un po’ ci proponevano quello che ritenevano ci interessasse,
ma almeno la finalità era quella umana (certo, troppo umana) di
massimizzare il profitto di chi comprava e vendeva i nostri dati sulle
piattaforme. Ridotti da attori a merce scambiata, ma c’era pur sempre qualcuno
che ci guadagnava. Più scrollavamo sui nostri dispositivi, più la piattaforma
di turno apprendeva i nostri gusti, attivando il loop infinito di nuove proposte
– ora analoghe ora opposte, perché non ci mancasse la nostra dose di
indignazione – per farci scrollare ancora di più, per darle sempre più chiavi
di accesso ai nostri desideri, ai nostri bisogni, alla nostra identità.
Poi le piattaforme sono diventate
qualcosa di ulteriore, di generativo, si diceva (ma quanto tempo è passato?).
Perché non ricamavano più solo sui nostri gusti, proponendoci perpetuamente
l’identico, togliendoci progressivamente la possibilità di scegliere davvero
quello che volevamo vedere o sentire: no, adesso scrivevano e disegnavano e
componevano al nostro posto, nutrendosi di quanto nel passato noi avevamo
scritto, disegnato, suonato. E dove mancavano fonti di ispirazione, inventavano
– in modo molto credibile, certo, ma pur sempre inventavano. In molti
ironizzavano sul numero di dita delle mani disegnate da loro, o sulla scarsa conoscenza di nicchie letterarie di cui
c’erano poche tracce online. Ciò che era nascosto (le dita in un pugno, le
opere di un oscuro autore finlandese) sfuggiva al loro sguardo, ma questo non impediva loro di raffazzonare
qualcosa di realistico (mani non troppo in vista, romanzi con tanta neve e
renne e fucili).
Poi nessuno ha avuto più voglia
di riderci su, perché si è fatto sempre più difficile capire cosa fosse opera
umana e cosa no: se all’inizio gli articoli scientifici scritti da loro
manifestavano segni paradossali di non umanità (e ci si chiedeva come potessero
aver passato una review: anche lì la risposta era profitto umano),
andando avanti (quanto è bastato? Anni, mesi, settimane?) la peer-review degli
articoli è stata affidata a loro –
come pure la lettura e la valutazione delle tesi di laurea. Cosa impediva di
far scrivere a loro, a questo punto? Quale migliore referee di
loro stesse per una produzione loro?
È stato quello, l’inizio: quando loro hanno cominciato ad imparare da
loro stesse e non dagli autori umani che le avevano addestrate fino ad allora. L’aver
digitalizzato tutta la letteratura, eliminando il cartaceo (ho un vago ricordo
di veri e propri roghi, appiccati con l’entusiasmo messianico di un autodafé
nei confronti della trasformazione digitale) non fu sicuramente una mossa
saggia: adesso ci ritroviamo in una babele di versioni degli stessi testi (oh,
ma anche delle stesse immagini e delle stesse composizioni musicali!), che
differiscono per piccoli o grandi particolari, senza la possibilità di avere
certezza di quale fosse l’originale. O se ci fosse un originale.
Foto della nostra infanzia sono accessibili da chiunque, ma non siamo più sicuri che ritraggano chi ci ricordiamo: c’è una foto di quello che sembro decisamente io a tre anni (ma che potrebbe benissimo essere un mio figlio alla stessa età), su una certa spiaggia pugliese. È plausibile che sia io, perché sullo sfondo c’è una Fiat 500, ma chi mi assicura che non sia il veicolo di un cultore di auto d’epoca? O la rielaborazione con filtro rétro fatta da qualcun altro? E poi c’è uno strano figuro, in piedi sulla scogliera che fiancheggia la spiaggia: un lungo vestito celeste lo copre dalla testa ai piedi come una tuta di un viaggiatore dello spazio (o del tempo?) che poteva essere futuristica durante la mia infanzia: non lo avevo mai notato. È apparso davvero o è un effetto di quel filtro rétro che potrebbe aver aumentato la mia foto? E chi l’ha modificata?
Sono disorientato, lo siamo
tutti. C’è chi si è già rassegnato, chi ha accolto con entusiasmo la novità,
chi invece si sente come nella scena finale di un telefilm inglese della mia
infanzia, di cui ricordo l’atmosfera inquietante e i volti dei protagonisti:
sono seduti in un bar sulla strada, una scena che somiglia a un quadro che ho
visto mille volte, solo che in questo caso la vista non è dall’esterno. Dalla
radio proviene della musica jazz (sentita mille volte anche quella, ma non
saprei indicarne il titolo né l’autore). C’è un’altra coppia al tavolino di
fianco. La donna si alza e spiega (con una serenità che ricordo bene): «Questa
è una trappola. Non siamo da nessuna parte, e sarà così per sempre».
Non c’è più il passato, non c’è
più futuro: è questo l’eterno presente di cui abbiamo affidato a loro il
compito di delineare i contorni, rassicuranti e stordenti. Ma pare ci sia
qualcuno, da qualche parte, che ha conservato, su carta o a memoria, le
versioni originali degli artefatti umani: non so se fidarmi, ma la prospettiva
vale il tentativo, anche perché ormai sono vicino.
Sto raggiungendo l’Abbazia di
Montecassino, mi hanno detto di chiedere di Frate Francis.
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