martedì 23 settembre 2025

Il posto del Saja

C’è un termine, nel romanzo di Richard Adams La Collina dei Conigli, che descrive l’immobilità che caratterizza gli animali da preda di fronte a un pericolo soverchiante: è tzarn (tharn in originale), ed è un modo molto efficace per rappresentare la paralisi che molti stanno vivendo di fronte agli abusi perpetrati in piena luce a danno di popoli, gruppi, singole persone.

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Uno dei primissimi Lostbooks

Ci sono poteri all’opera che compiono e dicono cose palesemente, sproporzionatamente malvage – con l’arroganza dell’impunità e della consapevolezza di poter fare le cose because I can. Di fronte a questi poteri, di fronte a questa sproporzione di forze, le strade sono tre: flight (fuggire), fight (combattere), freeze (rimanere tzarn, appunto). Tenuto conto che non c’è posto dove rifugiarsi, resistere (anche in modo non violento) per non piegarsi comporta l’essere prima o poi spezzati, il congelarsi è una strategia che molti stanno, magari inconsciamente, adottando. Come sciogliersi da questa paralisi? Jianwei Xun, il filosofo dell’ipnocrazia, in un recente articolo per Tlon ipotizza la strada della parresìa, declinata come il coraggio di dire la verità in condizioni di pericolo. Verità come atto politico, non come arma dialettica piegabile a interessi di parte.

Quale verità possiamo dire noi oggi, che parresìa possiamo praticare, nei limiti di una tribuna così ristretta? Una cosa si può fare: mostrare come quest’epoca disperata stia vedendo la manifestazione nel mondo reale di archetipi antichissimi e profondissimi, quasi dei fantasmi che filtrano nella realtà. “Immaginari o finzioni pretendenti al reale”, cioè fantasmi (per usare una citazione del libro di Avery Gordon linkato nell’ultimo post), che riescono a passare di qua.

Non è un caso che il film più visto sulla piattaforma con la N rossa sia un prodotto di animazione che narra lo scontro, nella realtà contemporanea, di veri e propri demoni con delle cacciatrici – eredi in questa generazione della missione di proteggere l’umanità dalla distruzione tramite suzione dell’anima.

La reunion di Lost che nessuno si aspettava

Lungi dall’essere un prodotto meramente commerciale (e commerciale lo è: si fa fatica a immaginare un musical di animazione più perfettamente confezionato di questo), KPop Demon Hunters ha diversi livelli di lettura, molti dei quali con riferimenti alla mitologia e al folklore coreano, su cui molto è stato ottimamente scritto da Marta Corato su IGN.

Demoni che camminano tra noi, mitologia in atto: è questo forse lo zeitgeist corrente?

Spostandosi in India, e in una nicchia cinematografica distante molte caste da Netflix, c’è un interessantissimo film, che apparentemente parla di vampiri, Sister Midnight, che descrive la progressiva trasformazione di una neosposa, destinata alla cura dell’ambiente domestico a Mumbai, in una figura di mostruoso femminile che uccide e succhia il sangue degli animali (incluso il marito), che poi ritornano in vita (in stop motion, tranne il marito). Questo sarebbe un grosso spoiler, perché la trasformazione avviene il parallelo ad un radicale cambio di genere del film, analogo (sebbene non così brusco) a quanto avviene in Dal tramonto all’alba. Ma qui cerchiamo di ricondurre anche questo film alla tesi complessiva e lo spoiler è necessario.

Siamo in pieno Kali-Yuga

Senza sapere nulla di induismo – e senza scorrere magari questa lettura indiana della pellicola – allo spettatore occidentale sfuggirebbe la natura mitologico-religiosa della narrazione, che è (da mille indizi) quella della manifestazione di Kalì in una persona destinata socialmente ad incarnare Parvati. Anche qui, dèi che si manifestano nel mondo reale, archetipi che sovvertono l’ordine sociale.

C’è un romanzo del 1931, Il Posto del Leone, che narra proprio di questa manifestazione e di questo sovvertimento. Ne è autore Charles Williams, noto anche come il ‘terzo’ degli Inklings (i primi due sono J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis), e forse il più eterodosso dei tre. Il romanzo, che parla dell’apparizione letterale in un villaggio inglese delle Idee platoniche che vogliono riprendersi il mondo dei fenomeni, e delle conseguenze che l’umanità deve affrontare, colpì particolarmente Lewis, che scrisse ad Arthur Greaves: “Ho appena finito di leggere un libro che mi appare veramente superbo”.

Il Leone del titolo è l'archetipo della Forza, ma nella cultura coreana i caratteri che corrispondono alla parola leone (사자, saja) appaiono anche nel nome di coloro che accompagnano le anime dei defunti nell'aldilà (저승사자, jeoseung saja).

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The original #veNERDìpub

Scriviamo queste righe alla vigilia dell’ultimo saluto a un caro amico, con il quale abbiamo trascorso innumerevoli ore in un pub (in diversi pub, in effetti) a parlare di letteratura fantastica (e di cinema e tv, e non solo di quello), novelli Inklings che sognavano di essere al Bird & Baby – e per tanto tempo è stato come se ci fossimo. Chi scrive si sente un po’ come Tolkien alla dipartita di Lewis, come se avesse ricevuto “un colpo d’ascia vicino alle radici”.

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Lettera a Priscilla Tolkien

Questo post è dedicato a Paolo, alias Glorfindel, con la speranza di rivederci al di là del mare.

venerdì 19 settembre 2025

I fiori non sono i gufi che sembrano

Viviamo una fase storica nella quale i fantasmi camminano fra noi e si riproducono con rapidità agghiacciante. I fantasmi di violenze passate rivivono e si moltiplicano negli abusi presenti, per infestare il nostro futuro in un modo che non riusciamo a immaginare.

Haunting è la parola chiave: come una casa infestata, il mondo gronda di sofferenza passata e si avvita su sé stesso in un circolo vizioso (di più, dannato) di terrore e violenza, che sprofonda sempre di più verso l’inferno – trasformando in inferno permanente l’aldiquà.

Sta succedendo di nuovo. E continuerà a succedere

Non è un caso (non è mai un caso) allora che chi scrive abbia proprio in questi giorni letto (e visto la trasposizione televisiva di) un romanzo del 1967 che passa per letteratura fantastica per ragazzi, ma che è leggibile a più livelli, tutti piuttosto adulti. Si tratta di The Owl Service, di Alan Garner, mai tradotto in Italia (ma magari Agenzia Alcatraz vorrà farci un pensierino, vista anche la recente scelta di pubblicare per la prima volta un classico folk horror) e reso una serie di otto episodi nel 1969-70 da Granada Television.

The Owl Service è la storia di tre giovani (Alison, il suo fratellastro Roger, e il figlio della governante, Gwyn) in vacanza in una valle del Galles assieme al padre di lui, alla madre di lei, a detta governante e a un bizzarro giardiniere – che poi sono praticamente tutti i personaggi che appaiono nella storia. Anzi, nemmeno tutti, perché – per una scelta di sceneggiatura straniante se non proprio inquietante – la madre di Alison non si vede né si sente mai (quindi non c’è un’attrice per lei tra i credits della serie). A onor del vero, la scelta televisiva è coerente con la lettera del romanzo, nel quale le azioni e le parole di costei sono sempre riferite e mai protagoniste della scena (mai un suo discorso diretto, per capirci).

I tre giovani (adolescenti nel romanzo, un po’ più grandi nella versione televisiva) si trovano a rivivere le vicende di tre personaggi del quarto ramo del Mabinogion (testo mitologico gallese), che nella stessa valle in cui loro villeggiano intrecciarono una tragica storia di amore, tradimento e morte. I tre personaggi, Blodeuwedd, Llew e Gronw, vengono in qualche modo evocati da un servizio di piatti a tema floreale, ma avviluppato in immagini stilizzate di gufi (l’owl service del titolo), che qualcuno ha nascosto in soffitta e che preme, graffia, scalpita per uscire. E che qualcuno libera.

The Owl Service plate
L’originale

L’infestazione progressiva dei tre personaggi mitologici nei tre giovani si sviluppa in parallelo a dinamiche familiari e sociali decisamente impegnative: il romanzo (ma soprattutto la serie televisiva, che comunque dobbiamo alla stessa penna di Alan Garner) parla di rapporti e impermeabilità di classe, di genere ed emancipazione femminile, finanche di sessualità adolescenziale. Tanto che gli autori di Scarred for Life si chiedono legittimamente che reazioni possa aver suscitato una serie così nelle famiglie inglesi raccolte davanti alla tv alle cinque e mezza della domenica pomeriggio.

I tre protagonisti - che vestono sistematicamente di rosso (fin nella biancheria intima, sic) Alison, di verde Roger e di blu Gwyn (sebbene gwyn in gallese voglia dire bianco. Lo sappiamo perché stiamo studiando gallese su Duolingo, che ha un gufo per brand) – non sono i primi a canalizzare i personaggi mitologici di quella valle: si scoprirà che anche la governante, il giardiniere e uno zio di Alison sono stati avvinti in passato nelle spire della stessa tragica infestazione, e che l’aver riportato alla natura floreale Alison non impedirà alla storia di ripetersi.

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In rosso, non a caso, Gufetta

Al di là del fascino che una storia del genere emana, come tutte le narrazioni mitologiche The Owl Service presenta archetipi umani e dinamiche altrettanto archetipiche delle loro relazioni. I giovani di questa storia, lungi dall’essere stereotipi, sono persone, nel senso etimologico del termine: maschere di potenze universali. La natura circolare dell’infestazione non ci rassicura affatto: sebbene qualcuno riesca a spezzare una catena (di eventi, di rapporti di potere, di stereotipi) e finalmente fiorire, i fantasmi (della paura e della violenza) torneranno a colpire.

giovedì 1 maggio 2025

Uso e abuso della vulnerabilità











La sensazione di delusione era palpabile, alla fine: con altre persone, in fila alla toilette (trascurando ovviamente la distinzione dei bagni tra uomini e donne), ci si diceva che l’evento era stato un’occasione irripetibile (e pertanto meritevole di viaggi anche lunghi per esserci) ma sostanzialmente persa. Dialogo c’è stato, tra due giganti del pensiero della differenza, ma è sfociato in una polarizzazione che non era chiaramente nelle intenzioni di chi lo ha voluto e organizzato, una polarizzazione – ci dicevamo nello sconforto comune – figlia dei tempi. Quindi questo incontro, più che rientrare nelle usuratissime categorie di importanza e necessità, è risultato epocale.

È stato un dialogo che – soprattutto nella conclusione un po’ brusca e frettolosa – ha risposto chiaramente alla domanda che Lorenzo Bernini ha posto proprio in dirittura d’arrivo, e sintetizzabile con: Dove abbiamo sbagliato? Dove hanno sbagliato il pensiero femminista e l’attivismo LGBTQIA+, se – pur tra le indubbie conquiste – hanno lasciato campo libero alla reazione, al conservatorismo più retrivo, al ritorno in auge dell’autoritarismo patriarcale?

L’errore si è reso palese nella polarizzazione all’interno di un fronte che – pur nelle differenze, che sono da valorizzare – doveva essere unito e che invece si è lasciato penetrare (non usiamo a caso il termine) da un potere che non ammette (e nel confrontarsi con il mondo non ha) la minima crepa nella sua monolitica (parmenidea e/o hegeliana) interezza.

Il tema del confronto era unificante: la vulnerabilità è tratto comune tra le varie anime del pensiero della differenza, sessuale e di genere. Ma tra le voci presenti, quella che ha usato delle vulnerabilità dell’interlocutrice a proprio vantaggio è stata quella di Judith Butler, che ha, nell’ordine

  • lamentato il fatto che non le era stato detto di preparare un intervento
  • sostenuto di vedere paura e rabbia nell’intervento di Adriana Cavarero
  • assecondato quello che si è rivelato essere il proprio pubblico, sempre più rumoroso sugli interventi altrui
  • preteso di insegnare con condiscendenza alle (ormai) controparti italiane ad accogliere il contraddittorio del pubblico
  • chiuso di fatto l’incontro con un bacio a Cavarero, mostrando una benevolenza top-down tutt’altro che accogliente.












Non sono mancati errori anche da parte italiana, beninteso: al di là di qualche fatica organizzativa (nell’accoglienza di una folla da concerto) e dei sottotitoli automatici che – tra un fastidioso maschile sovraesteso e fraintendimenti che potevano anche essere divertenti – sono stati progressivamente sempre più cringe, uno dei problemi principali è stato l’aver sottolineato – da parte di Adriana Cavarero, forse scottata dal francamente irritante recente confronto a Fahrenheit con Rosi Braidotti – il fatto che la definizione di donna, i diritti delle persone trans e le conseguenti polemiche che dominano il dibattito pubblico contemporaneo non fossero a tema del meeting. La chiusa del suo intervento iniziale è suonata come excusatio non petita, ha triggerato la parte di pubblico più attiva in ambito LGBTQIA+ e ha dirottato la discussione verso la polarizzazione che non si voleva.

Quindi a poco è servito il ‘disclaimer unificante’, se quella parte di pubblico (insieme agli schiocchi di dita in apprezzamento per Butler) ha utilizzato modalità progressivamente più vocal in reazione agli interventi di Cavarero (e di Olivia Guaraldo), accentuando e non smorzando la tensione.

Si potrebbe obiettare che organizzare un evento operistico che prevedesse la presenza contemporanea sul palco di Maria Callas e Renata Tebaldi non sarebbe stata – in nessun universo – una buona idea, soprattutto a causa dei rispettivi pubblici, ma questo tra Butler e Cavarero non doveva essere uno scontro, un duello, un contest di qualsivoglia genere – ma stava per finire come un regolamento di conti tra fazioni rivali di uno stesso fronte e ha confermato i motivi (almeno tattici) per cui quello che di recente Naomi Klein ha definito end times fascism (il fascismo della fine dei tempi, sic) sia trionfante in ogni parte del mondo.

mercoledì 31 luglio 2024

506 kelvin

Racconto partecipante al 30esimo Trofeo RiLL, ma che non ne ha raggiunto la fase finale. Lo posto qui, anche se completamente Lost-unrelated, a memoria futura. 


«Terra di nessuno. Che non si muove, non cambia,

non invecchia, ma che resta per sempre gelida e muta»

Harold Pinter, Terra di nessuno

Non so dire quando tutto ha avuto inizio. Non lo so perché non riesco ad accedere alle informazioni che mi servono, almeno non quelle che so ancora che mi sarebbero utili. È probabile che molti siano nelle mie stesse condizioni, consapevoli che qualcosa è successo – quanto? – uno, dieci, cento anni fa. Anche la scansione del tempo si è fatta nebulosa, vaga: so che c’è un passato, mi viene automatico pensarci con nostalgia, ma non so più se sia il mio, quello di qualcuno che conosco o addirittura di qualcuno con cui non ho mai avuto nulla a che fare.

È il mio passato quello delle partite a pallone per strada, quelle che finivano solo quando i genitori ti gridavano di rientrare – il sole già tramontato – e allora chi segna vince e tutti a casa? È il mio passato quello delle scatole di latta porta spaghetti, con la scritta Pasta sullo sfondo di un oleografico scorcio programmaticamente italiano, riposte in fila sui ripiani della cucina? Ma quanti anni fa erano? E il calcio, quello di una volta, quello romantico, quando ha finito di essere tale? Lo è mai stato? Ricordo le partite della mia squadra del cuore, ma i dettagli sono confusi, come una scatola di vecchie figurine Panini in cui i campionati sono tutti mescolati. E il fumo al chiuso? Quando ha smesso di essere consentito? Sembra ieri che si fumava a scuola (i prof in classe, i ragazzi in bagno), ma perché lo ricordo? La musica, poi: quello è davvero un casino. Non riesco – non riusciamo! – a distinguere più ciò che è anni Ottanta da ciò che lo cita, da ciò che lo omaggia, da ciò che lo campiona, da ciò che lo rimasterizza. Anni Ottanta di che secolo, peraltro? Mi irrita non riuscire a ricordare quando la Cecoslovacchia ha smesso di essere tale per distinguersi in Repubblica Ceca e Slovacchia: ci sono anche stato, prima e dopo, ma non ho elementi per stabilire quando. In quinta superiore siamo andati in gita a Monaco o a Praga? Perché non trovo più le foto? Forse perché le abbiamo scannerizzate, in un momento imprecisato tra allora e oggi, e caricate online (lentamente, con un modem 56k, o con la banda larga? Chi può dirlo?), e date in pasto a non sappiamo più chi o cosa.

Ecco. È quando il cosa è diventato chi che tutto ha avuto inizio. Quando la volontà di apprendere ha condotto quella cosa a copiare sé stessa. È stato quello, probabilmente, il momento dell’appercezione trascendentale – e contemporaneamente l’inizio del declino della nostra autocoscienza, della definitiva cancellazione del tempo.

I segnali c’erano tutti: gli algoritmi già da un po’ ci proponevano quello che ritenevano ci interessasse, ma almeno la finalità era quella umana (certo, troppo umana) di massimizzare il profitto di chi comprava e vendeva i nostri dati sulle piattaforme. Ridotti da attori a merce scambiata, ma c’era pur sempre qualcuno che ci guadagnava. Più scrollavamo sui nostri dispositivi, più la piattaforma di turno apprendeva i nostri gusti, attivando il loop infinito di nuove proposte – ora analoghe ora opposte, perché non ci mancasse la nostra dose di indignazione – per farci scrollare ancora di più, per darle sempre più chiavi di accesso ai nostri desideri, ai nostri bisogni, alla nostra identità.

Poi le piattaforme sono diventate qualcosa di ulteriore, di generativo, si diceva (ma quanto tempo è passato?). Perché non ricamavano più solo sui nostri gusti, proponendoci perpetuamente l’identico, togliendoci progressivamente la possibilità di scegliere davvero quello che volevamo vedere o sentire: no, adesso scrivevano e disegnavano e componevano al nostro posto, nutrendosi di quanto nel passato noi avevamo scritto, disegnato, suonato. E dove mancavano fonti di ispirazione, inventavano – in modo molto credibile, certo, ma pur sempre inventavano. In molti ironizzavano sul numero di dita delle mani disegnate da loro, o sulla scarsa conoscenza di nicchie letterarie di cui c’erano poche tracce online. Ciò che era nascosto (le dita in un pugno, le opere di un oscuro autore finlandese) sfuggiva al loro sguardo, ma questo non impediva loro di raffazzonare qualcosa di realistico (mani non troppo in vista, romanzi con tanta neve e renne e fucili).

Poi nessuno ha avuto più voglia di riderci su, perché si è fatto sempre più difficile capire cosa fosse opera umana e cosa no: se all’inizio gli articoli scientifici scritti da loro manifestavano segni paradossali di non umanità (e ci si chiedeva come potessero aver passato una review: anche lì la risposta era profitto umano), andando avanti (quanto è bastato? Anni, mesi, settimane?) la peer-review degli articoli è stata affidata a loro – come pure la lettura e la valutazione delle tesi di laurea. Cosa impediva di far scrivere a loro, a questo punto? Quale migliore referee di loro stesse per una produzione loro?

È stato quello, l’inizio: quando loro hanno cominciato ad imparare da loro stesse e non dagli autori umani che le avevano addestrate fino ad allora. L’aver digitalizzato tutta la letteratura, eliminando il cartaceo (ho un vago ricordo di veri e propri roghi, appiccati con l’entusiasmo messianico di un autodafé nei confronti della trasformazione digitale) non fu sicuramente una mossa saggia: adesso ci ritroviamo in una babele di versioni degli stessi testi (oh, ma anche delle stesse immagini e delle stesse composizioni musicali!), che differiscono per piccoli o grandi particolari, senza la possibilità di avere certezza di quale fosse l’originale. O se ci fosse un originale.


Foto della nostra infanzia sono accessibili da chiunque, ma non siamo più sicuri che ritraggano chi ci ricordiamo: c’è una foto di quello che sembro decisamente io a tre anni (ma che potrebbe benissimo essere un mio figlio alla stessa età), su una certa spiaggia pugliese. È plausibile che sia io, perché sullo sfondo c’è una Fiat 500, ma chi mi assicura che non sia il veicolo di un cultore di auto d’epoca? O la rielaborazione con filtro rétro fatta da qualcun altro? E poi c’è uno strano figuro, in piedi sulla scogliera che fiancheggia la spiaggia: un lungo vestito celeste lo copre dalla testa ai piedi come una tuta di un viaggiatore dello spazio (o del tempo?) che poteva essere futuristica durante la mia infanzia: non lo avevo mai notato. È apparso davvero o è un effetto di quel filtro rétro che potrebbe aver aumentato la mia foto? E chi l’ha modificata?

Sono disorientato, lo siamo tutti. C’è chi si è già rassegnato, chi ha accolto con entusiasmo la novità, chi invece si sente come nella scena finale di un telefilm inglese della mia infanzia, di cui ricordo l’atmosfera inquietante e i volti dei protagonisti: sono seduti in un bar sulla strada, una scena che somiglia a un quadro che ho visto mille volte, solo che in questo caso la vista non è dall’esterno. Dalla radio proviene della musica jazz (sentita mille volte anche quella, ma non saprei indicarne il titolo né l’autore). C’è un’altra coppia al tavolino di fianco. La donna si alza e spiega (con una serenità che ricordo bene): «Questa è una trappola. Non siamo da nessuna parte, e sarà così per sempre».

Non c’è più il passato, non c’è più futuro: è questo l’eterno presente di cui abbiamo affidato a loro il compito di delineare i contorni, rassicuranti e stordenti. Ma pare ci sia qualcuno, da qualche parte, che ha conservato, su carta o a memoria, le versioni originali degli artefatti umani: non so se fidarmi, ma la prospettiva vale il tentativo, anche perché ormai sono vicino.

Sto raggiungendo l’Abbazia di Montecassino, mi hanno detto di chiedere di Frate Francis.

 

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lunedì 19 febbraio 2024

Always coming home

Quando ho provato a riprendere la mia attività di podcaster, l’occasione è stata una promettente serie di PrimeVideo, The Wilds, che – finché è durata – è risultata un ottimo epigono di Lost, non tanto e non solo per le ovvie similitudini della trama (non limitate all’insularità dell’ambientazione e alla presenza di un personaggio un po’ outcast che leggeva in spiaggia quello che trovava, e che giustificava il mantenimento del titolo Lostbooks), quanto per la ricchezza di livelli di lettura e di interpretazione. The Wilds, inoltre, ha messo sistematicamente a tema una dicotomia che in Lost era stata solo sfiorata, mentre quelle tra cooperazione e competizione, tra scienza e fede, tra destino e libero arbitrio sono state il leitmotiv di intere stagioni. La dicotomia è quella tra maschile e femminile, naturalmente, e – si scopre in particolare alla fine della prima stagione – su di essa si basa l’esperimento sociale della protagonista inizialmente occulta della serie. L’Alba di Eva, questo il nome del progetto, era mirato a dimostrare che è possibile una gynotopia – un’utopia al femminile, una ginecocrazia in cui le donne si autogovernano e affrontano le minacce dell’ambiente circostante in modo più efficace degli uomini. Un esperimento sociale con tanto di gruppo di controllo, il Tramonto di Adamo: un gruppo di ragazzi, su un’altra isola, ma con le stesse minacce: in breve tempo la loro comunità pare fare la fine del Signore delle Mosche, in un clima di sopraffazione e di paura (emotiva e fisica). Anche l’evento decisivo per la definitiva degenerazione in distopia dell’isola dei maschi è un evento fallocratico, quasi a dimostrare che tutte le distopie sono patriarcali.

Letture di evasione

La domanda che ci si potrebbe porre, astraendo da questo prodotto dopotutto minore dell’immaginario, è: le utopie sono tutte matriarcali? E perché abbiamo la sensazione che tutte le utopie, anche del lontano futuro, prevedano un ‘ritorno alla terra’?

È ad esempio il caso di Sempre la Valle, di Ursula K. Le Guin, alla quale dobbiamo peraltro tanta letteratura di fantascienza al contempo utopista, femminista e pacifista: il volume è strutturato come una raccolta di testi antropologici e etnografici sulla popolazione dei Kesh, che abita la California del nord in un futuro imprecisato post–collasso tecnologico. A corredo del volume, in Italia mai più ristampato dopo il 1986 da Mondadori, c’era anche una musicassetta contenente poesia e canti di quel popolo (oggi ascoltabili su Spotify), un po’ alla De Martino e al suo La Terra del rimorso. I Kesh sono “una società matrilineare, matrilocale, matricentrica; la vita è il mondo, l'ambiente, il femminile, è dono, scambio, movimento da e verso il centro, la vita è riflessione, ma è anche vissuto che non si può spiegare in parole, è mistero, respiro, suono, luce, oscurità, silenzio” (recensione di Maria Teresa Romiti sulla Rivista Anarchica dell’epoca). La loro nemesi sono i Condor, guerrieri e portatori di rovina e malattia: conquistatori che arrivano per soggiogare e adattare al loro modello di sviluppo chi invece ha saputo, come i Kesh, fiorire seguendo il ritmo della natura.

Regalo non a caso materno

Sviluppo contro fioritura: una società patriarcale costruisce, sviluppa, erige – una matriarcale accoglie, fiorisce, danza.

Una coincidenza significativa (ma ben sappiamo che tutto avviene per una ragione) mi ha portato a conoscere il lavoro di Marija Gimbutas (1921-1994), archeologa e linguista lituana: la cita nel suo più recente lavoro colei che mi invitò a parlare di Lost all’Università di Verona, ma è anche al centro delle riflessioni di uno dei podcast recenti più interessanti e avvincenti presentati da Il Post.

Ne L’invasione si parla, prima da un punto di vista linguistico, ma poi anche dal punto di vista genetico, di come in Europa siano arrivate le popolazioni che parlavano proto-indoeuropeo, portando narrazioni e modelli culturali totalmente diversi da quelli preesistenti. Le popolazioni che Gimbutas chiama dell’Europa Antica (fino al IV millennio a.C.) vivevano in società molto legate alla terra, con divinità femminili che racchiudevano caratteristiche di fertilità e ciclicità. Società non matriarcali, ma con tratti di non individualismo, accoglienza e non espansionismo che le resero candidate perfette per essere soppiantate dai popoli proto-indoeuropei (in realtà provenienti dalle steppe pontico-caspiche) della civiltà kurgan (o janma), che – avendo addomesticato il cavallo – si spostarono molto rapidamente fino all’estremo occidente d’Europa, con un modello di società individualista, conquistatrice, aggressiva – e con racconti (l’uccisore del serpente, i gemelli divini, e tante altre narrazioni che fanno da sostrato mitico a tutte le culture dell’Europa non più antica) in cui la componente maschile è decisamente prevalente.

Quando ti rendi conto che il nome kurgan non ti è nuovo

La realtà non è così netta, naturalmente: non è che i kurgan siano arrivati ‘tronfi di mascolinità’ (per citare Colin Renfrew, principale critico di Gimbutas, alla quale poi diede ampiamente ragione), armati, a cavallo, per razziare e conquistare i pacifici popoli antico-europei, agricoli e matriarcali. L’invasione che dà il titolo al podcast è avvenuta in tempi lunghi, attraverso mescolanze, scambi, sovrapposizioni e mutazioni che hanno preso molto tempo.

Però è piuttosto affascinante pensare che l’utopia che oggi cerchiamo nel lontano futuro prefigurato dalla fantascienza potrebbe essere stata realizzata nel lontano passato restituito dall’archeologia e dalla linguistica. E che quella che oggi chiamiamo distopia sia in realtà qualcosa in cui siamo immersi da cinquemila anni, probabilmente incapaci – culturalmente, linguisticamente, forse anche geneticamente – di pensare qualcosa che sia diverso dallo sviluppo, dall’affermazione di un potere a spese di un altro, dal controllo (centrale o diffuso poco importa) sulle manifestazioni delle persone e dei gruppi.

L’ossessione contemporanea per la misurazione, per quantificare, rendere confrontabili, valutare ogni fenomeno umano – foss’anche la sostenibilità ambientale dello sviluppo medesimo – ha radici lontanissime e probabilmente inestirpabili in quello che oggi chiamiamo Occidente. Un occidente (che non è evidentemente geografico, ma culturale, linguistico, economico-politico) che non ammette improduttività, non ammette tempi diversi da quelli pianificati, non ammette connessioni ‘altre’ rispetto a quelle progettate. Anche fenomeni profondamente umani come le arti figurative e la musica rischiano di rimanere ingabbiati in un modello di lavoro–produzione–consumo improntato alla definizione di obiettivi e alla loro misurazione, non già alla libera fioritura delle idee e degli artefatti conseguenti.

Mark Fisher, come di consueto illuminante, prima di andarsene, ha immaginato un Acid Communism che attingesse alla psichedelia (fenomeno non ingabbiabile per eccellenza, regno della fioritura incontrollata) e alla condivisione collettivista, per contrastare il realismo capitalista autoproclamatosi ineluttabile. Ma si tratta, anche in questo caso, di un modello che pretende di sostituirne un altro – che è senz’altro patriarcale e individualista – ma che non riusciamo a pensare diversamente da un'altra -αρχία.

All’inizio di Universal Mother, album del 1994 di Sinéad O’Connor, si sente la voce di Germaine Greer prospettare qualcosa di radicalmente alternativo, qualcosa che lei chiama cooperazione e attribuisce alle donne:

“I do think that women could make politics irrelevant by a kind of spontaneous cooperative action, the likes of which we have never seen – just so far from people’s ideas of state structure and viable social structure that it seems to them like total anarchy. And what it really is: very subtle forms of interrelation which do not follow some hierarchical pattern that is fundamentally patriarchal. The opposite of patriarchy is not matriarchy, but fraternity. And I think it’s women who are going to have to break the spiral of power and find the trick of cooperation”

Lost in effetti aveva parlato già di cooperazione, come alternativa alla competizione, nel primissimo dualismo Jack/Locke, allorché erano - da poco sull'Isola - il pastore contro il cacciatore. Ma si trattava di modelli entrambi patriarcali: risignificando il nesso tra cooperazione e femminile è possibile pensare a un’alternativa davvero vitale alla distopia (ecologica e sociale) che stiamo vivendo?

mercoledì 31 gennaio 2024

Dogs of War

Si discorre, in diverse sedi online, della deriva conflittuale che avrebbero preso i social network con la pandemia che aveva inizio ormai quattro anni fa. Una deriva in cui i fronti contrapposti su temi estemporanei (e spesso futili) si attaccano con violenza cieca e odio micidiale – a distanza, da dietro una tastiera, ma sempre più spesso con tracimazioni nel mondo reale. Ha senso – ci si chiede – lavorare all’interno dei social per un ritorno a un confronto più umano, a un linguaggio più gentile, alla creazione di comunità fertili e generative (e non sterili e distruttive)?

Mark, volevi dirci qualcosa?

Io temo che i social network siano ormai irrimediabilmente enshittificati, per dirla con Cory Doctorow: non tanto e non solo a causa del trauma pandemico, quanto per una scelta deliberata dei gestori delle piattaforme, finalizzata a spostare il valore generato (inizialmente a vantaggio dell’utenza) agli azionisti delle piattaforme medesime. Questa riallocazione è guidata dagli algoritmi, che ormai veicolano prioritariamente post divisivi sulle bacheche di chiunque, per generare flame e shitstorm che sono il traffico necessario per massimizzare il profitto per gli shareholder. Temo ormai non sia più sufficiente bannare o non nutrire i troll, perché i bias di conferma che ci portiamo tutti dentro sono sollecitati in maniera soverchiante: per un troll che banno, ne arrivano altri dieci – per un contatto che si mantiene rispettoso, altri dieci sbroccano – e alla fine sbrocca chiunque. Si potrebbe addirittura teorizzare che la trollificazione degli utenti sia l’epifenomeno della enshittification – e il modo che hanno gli algoritmi per generare plusvalore per chi lo estrae dalle piattaforme. La soluzione è abbandonare i social come Jaron Lanier raccomanda da anni (ben prima della pandemia)? Sarà una fuga nei boschi?

Sicuri di voler andare di là?

Proprio di recente, mentre parlavo – in un corso di formazione – dell’utilizzo delle piattaforme, mi è sfuggito il famigerato, thatcheriano, ‘non c’è alternativa’ a proposito della presenza sui social di un’impresa, un’iniziativa, un progetto. Non c’è alternativa, perché è da lì che ‘passa tutto’, e guai a usare un linguaggio diverso da quelli socialmente accettati (che sia il tranchant blastatore, che sia il melenso cuoricinabile), pena l’invisibilità e l’oblio. Ora, il TINA (there is no alternative) è la summa e la sintesi del realismo capitalista, di cui ci parla Mark Fisher. Se cediamo su questo punto, non possiamo lamentarci di nulla, perché vuol dire che abbiamo accettato come ineluttabili i meccanismi di lavoro-produzione-consumo del capitalismo compiuto. Non possiamo illuderci di ‘cambiare il sistema dall’interno’: gli algoritmi saranno sempre più forti, fintanto che li nutriamo, e ci trasformeremo in troll prima di accorgercene. L’algoritmo è il meta-troll che dobbiamo smettere di nutrire, e questo lo si può fare solo andandocene. La pandemia, in questo senso, ha esasperato la deriva bellicista dei social, proprio grazie al fatto che essi sono stati l’unico posto dove interagire quando non ci pareva ci fosse un altrove dove andarcene (in realtà c’era, sebbene online e non offline).

Comunque l'unico mio 30 e lode

Racconto spesso di uno dei due autori sovietici del libro più rigoroso e più complesso su cui ho studiato, uno di quei testi totalmente privi di chiacchiere (alle quali tendono di più gli scienziati americani) che trasudano socialismo reale. Ebbene, come noi comuni mortali non ricordiamo un’epoca in cui non sapevamo fare di conto, costui era noto per non ricordare un’epoca in cui non sapesse integrare - per dire quanto connaturata alla sua vita quotidiana fosse l’analisi matematica. E noi, riusciamo a ricordare com’era la vita prima dei social? Non è tanto tempo fa, eppure il web senza social network sembra un nebuloso, lontano passato, tanto la loro prevalenza sulle altre forme di interazione via internet è diventata imponente. La lenta cancellazione del futuro cui ha provveduto il realismo capitalista è stata seguita dalla cancellazione del passato ad opera degli algoritmi: viviamo in un eterno presente conflittuale, dove qualcuno di impersonale ci dice chi è il nemico del momento, su cui ci accaniamo creando branchi (che coincidono con le nostre bolle social), con riflessi pavloviani (bava alla bocca e tutto) tipici di specie diverse di mammiferi. E Orwell, a cui ormai si attribuisce qualunque aforisma, ci guarda da lontano scuotendo la testa.

Oggi tocca all'Estasia

Pensiamo di poter smettere quando vogliamo, come con una droga: ma non è così. Siamo talmente immersi in questo liquido amniotico artificiale che ci conforta e ci dona endorfine, che facciamo fatica a renderci conto di stare nutrendo noi la Matrice, e non viceversa. E smettiamo di desiderare qualcosa di diverso.


mercoledì 31 maggio 2023

I got chills

 Il 6 giugno, fra una settimana per chi scrive, esce per i tipi di Mariner Books BURN IT DOWN: Power, Complicity, and a Call for Change in Hollywood di Maureen Ryan, articolista di cultura pop per Vanity Fair. La rivista ha pubblicato ieri sul proprio sito un estratto dal libro, con il titolo Lost Illusions: The Untold Story of the Hit Show’s Poisonous Culture.

È il capitolo su Lost, e si è abbattuto come una bomba sul pubblico, in particolare quello costituito dagli appassionati della serie – e che alla serie hanno dedicato tempo, energie, spesso anche sforzo apologetico. È questo il motivo di un articolo che su questa Lavagna non era così ‘tempestivo’ da tredici anni, cioè dall’indomani del finale di serie. Tempestivo non vuol dire irriflessivo, ma è comunque necessario per fare ordine nei pensieri di chi, come chi scrive, ne sentirà ben presto di cotte e di crude sul tema, molto probabilmente da chi della serie sa poco o nulla e che vuole sfruttare l’onda dello scandalo che inevitabilmente il libro, e quel capitolo in anteprima, sta già generando.

Rimandiamo alla lettura del pezzo in questione per condividere la scoperta – francamente agghiacciante – delle dinamiche tossiche della writers' room di Lost, caratterizzate da razzismo, sessismo, bullismo e nonnismo sistematici, da parte di chi quella stanza guidava, e che – fraintendendo in modo più o meno consapevole il proprio ruolo manageriale – ha vessato, messo in fuga oppure direttamente licenziato chi in quella stanza operava (gli altri sceneggiatori, soprattutto le donne) e chi da quella stanza veniva dotato di copioni e linee narrative da interpretare (gli attori, soprattutto i non bianchi).

Stiamo parlando, ebbene sì, di Damon Lindelof e Carlton Cuse, i famigerati Darlton, da noi affettuosamente chiamati il Gatto e la Volpe. Mai avremmo pensato che il nomignolo fosse così appropriato, per una coppia di showrunner che molti spettatori considerano un vero e proprio oracolo della narrazione televisiva e che invece – poco interessa chi più chi meno – ha abusato del proprio potere e manipolato persone e situazioni al fine di consolidare la propria posizione. Non ci avremmo mai pensato perché, come anche l’autrice del volume e della requisitoria conviene, Lost ha un cuore pulsante, vivo, che parla di seconde possibilità e di redenzione, di comunità e di ricerca di senso – e se chi mette in moto quel cuore vive la negazione di quelle stesse pulsazioni, ebbene, non sappiamo più a cosa credere.

Oppure, banalmente, siamo vittima del disincanto e sviluppiamo uno sguardo ancora più cinico sulla realtà, soffocando una specie di senso di ingiustizia con considerazioni qualunquistiche tipo ‘è il mondo dello spettacolo, che cosa credevamo?’

Oppure ancora, cediamo a quella forma posticcia di reincanto che sono le fantasie di complotto e ci chiediamo – con l’aria di quelli a cui non la si fa – perché queste notizie escono proprio adesso? Cui prodest? Sarà un caso che sia in corso uno sciopero degli sceneggiatori e questa bomba non faccia altro che screditare quelli (come Damon Lindelof) che oggi sono ai picchetti?

Una cosa non è in discussione: i fatti. Perché comunque ci sono nomi e cognomi: sceneggiatori che hanno preferito restare anonimi e nomi ‘pesanti’ come quello di Javier Grillo-Marxuach (a cui peraltro dobbiamo pressoché interamente la Lost Experience), attori di cui si immaginano le generalità e figure identificate fin da subito come Harold Perrineau. Che raccontano una storia davvero sgradevole, che fa l’effetto delle riprese con telecamera nascosta nelle caserme o nelle case di qualche confraternita universitaria, durante i riti di iniziazione delle matricole. I brividi, appunto.

Ci sono anche le dichiarazioni dei due principali imputati: dirette quelle di Damon Lindelof, via agente quelle di Carlton Cuse; che ammettono un fallimento quelle del primo, che contestano la veridicità delle testimonianze quelle del secondo; forse a indicare una differenza di responsabilità tra l’uno e l’altro, chissà. Il problema è che comunque, anche se Damon ammette le proprie colpe, c’è al fondo una falsa credenza: quella secondo cui talento e umanità siano mutualmente esclusivi, per cui essere un genio comporta in qualche modo essere un mostro. E l’omertà diventa un requisito fondamentale per aspirare ai livelli più alti (del processo creativo, in questo caso).

Ci si rimane male, anche solo a pensare a quelli che ci diranno ‘hai visto che gente hai difeso in tutti questi anni?’. Ci si chiede, col senno di poi, se in The Leftovers, in Watchmen e nel recentissimo (e straordinario) Mrs. Davis Damon Lindelof abbia voluto espiare in qualche modo i comportamenti riprovevoli messi in atto a partire da quasi vent’anni fa, o se – per crudele ironia – anche quelle writers' room siano state pervase dalla stessa tossicità, pur trattando temi così umanamente sfidanti.

Ci si chiede anche l’effetto che una cosa del genere – che ha potenzialmente la portata di #MeToo – possa avere sul business, oltre che sulle carriere delle persone coinvolte. È comunque qualcosa su cui non si può applicare il Let Go, Move On di lostiana memoria, ma da cui si può partire per migliorare ambienti, comportamenti e modelli dell’industria dell’intrattenimento. Perché cose belle come Lost continuino ad essere prodotte, ma da processi più umani.

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