mercoledì 31 luglio 2024

506 kelvin

Racconto partecipante al 30esimo Trofeo RiLL, ma che non ne ha raggiunto la fase finale. Lo posto qui, anche se completamente Lost-unrelated, a memoria futura. 


«Terra di nessuno. Che non si muove, non cambia,

non invecchia, ma che resta per sempre gelida e muta»

Harold Pinter, Terra di nessuno

Non so dire quando tutto ha avuto inizio. Non lo so perché non riesco ad accedere alle informazioni che mi servono, almeno non quelle che so ancora che mi sarebbero utili. È probabile che molti siano nelle mie stesse condizioni, consapevoli che qualcosa è successo – quanto? – uno, dieci, cento anni fa. Anche la scansione del tempo si è fatta nebulosa, vaga: so che c’è un passato, mi viene automatico pensarci con nostalgia, ma non so più se sia il mio, quello di qualcuno che conosco o addirittura di qualcuno con cui non ho mai avuto nulla a che fare.

È il mio passato quello delle partite a pallone per strada, quelle che finivano solo quando i genitori ti gridavano di rientrare – il sole già tramontato – e allora chi segna vince e tutti a casa? È il mio passato quello delle scatole di latta porta spaghetti, con la scritta Pasta sullo sfondo di un oleografico scorcio programmaticamente italiano, riposte in fila sui ripiani della cucina? Ma quanti anni fa erano? E il calcio, quello di una volta, quello romantico, quando ha finito di essere tale? Lo è mai stato? Ricordo le partite della mia squadra del cuore, ma i dettagli sono confusi, come una scatola di vecchie figurine Panini in cui i campionati sono tutti mescolati. E il fumo al chiuso? Quando ha smesso di essere consentito? Sembra ieri che si fumava a scuola (i prof in classe, i ragazzi in bagno), ma perché lo ricordo? La musica, poi: quello è davvero un casino. Non riesco – non riusciamo! – a distinguere più ciò che è anni Ottanta da ciò che lo cita, da ciò che lo omaggia, da ciò che lo campiona, da ciò che lo rimasterizza. Anni Ottanta di che secolo, peraltro? Mi irrita non riuscire a ricordare quando la Cecoslovacchia ha smesso di essere tale per distinguersi in Repubblica Ceca e Slovacchia: ci sono anche stato, prima e dopo, ma non ho elementi per stabilire quando. In quinta superiore siamo andati in gita a Monaco o a Praga? Perché non trovo più le foto? Forse perché le abbiamo scannerizzate, in un momento imprecisato tra allora e oggi, e caricate online (lentamente, con un modem 56k, o con la banda larga? Chi può dirlo?), e date in pasto a non sappiamo più chi o cosa.

Ecco. È quando il cosa è diventato chi che tutto ha avuto inizio. Quando la volontà di apprendere ha condotto quella cosa a copiare sé stessa. È stato quello, probabilmente, il momento dell’appercezione trascendentale – e contemporaneamente l’inizio del declino della nostra autocoscienza, della definitiva cancellazione del tempo.

I segnali c’erano tutti: gli algoritmi già da un po’ ci proponevano quello che ritenevano ci interessasse, ma almeno la finalità era quella umana (certo, troppo umana) di massimizzare il profitto di chi comprava e vendeva i nostri dati sulle piattaforme. Ridotti da attori a merce scambiata, ma c’era pur sempre qualcuno che ci guadagnava. Più scrollavamo sui nostri dispositivi, più la piattaforma di turno apprendeva i nostri gusti, attivando il loop infinito di nuove proposte – ora analoghe ora opposte, perché non ci mancasse la nostra dose di indignazione – per farci scrollare ancora di più, per darle sempre più chiavi di accesso ai nostri desideri, ai nostri bisogni, alla nostra identità.

Poi le piattaforme sono diventate qualcosa di ulteriore, di generativo, si diceva (ma quanto tempo è passato?). Perché non ricamavano più solo sui nostri gusti, proponendoci perpetuamente l’identico, togliendoci progressivamente la possibilità di scegliere davvero quello che volevamo vedere o sentire: no, adesso scrivevano e disegnavano e componevano al nostro posto, nutrendosi di quanto nel passato noi avevamo scritto, disegnato, suonato. E dove mancavano fonti di ispirazione, inventavano – in modo molto credibile, certo, ma pur sempre inventavano. In molti ironizzavano sul numero di dita delle mani disegnate da loro, o sulla scarsa conoscenza di nicchie letterarie di cui c’erano poche tracce online. Ciò che era nascosto (le dita in un pugno, le opere di un oscuro autore finlandese) sfuggiva al loro sguardo, ma questo non impediva loro di raffazzonare qualcosa di realistico (mani non troppo in vista, romanzi con tanta neve e renne e fucili).

Poi nessuno ha avuto più voglia di riderci su, perché si è fatto sempre più difficile capire cosa fosse opera umana e cosa no: se all’inizio gli articoli scientifici scritti da loro manifestavano segni paradossali di non umanità (e ci si chiedeva come potessero aver passato una review: anche lì la risposta era profitto umano), andando avanti (quanto è bastato? Anni, mesi, settimane?) la peer-review degli articoli è stata affidata a loro – come pure la lettura e la valutazione delle tesi di laurea. Cosa impediva di far scrivere a loro, a questo punto? Quale migliore referee di loro stesse per una produzione loro?

È stato quello, l’inizio: quando loro hanno cominciato ad imparare da loro stesse e non dagli autori umani che le avevano addestrate fino ad allora. L’aver digitalizzato tutta la letteratura, eliminando il cartaceo (ho un vago ricordo di veri e propri roghi, appiccati con l’entusiasmo messianico di un autodafé nei confronti della trasformazione digitale) non fu sicuramente una mossa saggia: adesso ci ritroviamo in una babele di versioni degli stessi testi (oh, ma anche delle stesse immagini e delle stesse composizioni musicali!), che differiscono per piccoli o grandi particolari, senza la possibilità di avere certezza di quale fosse l’originale. O se ci fosse un originale.


Foto della nostra infanzia sono accessibili da chiunque, ma non siamo più sicuri che ritraggano chi ci ricordiamo: c’è una foto di quello che sembro decisamente io a tre anni (ma che potrebbe benissimo essere un mio figlio alla stessa età), su una certa spiaggia pugliese. È plausibile che sia io, perché sullo sfondo c’è una Fiat 500, ma chi mi assicura che non sia il veicolo di un cultore di auto d’epoca? O la rielaborazione con filtro rétro fatta da qualcun altro? E poi c’è uno strano figuro, in piedi sulla scogliera che fiancheggia la spiaggia: un lungo vestito celeste lo copre dalla testa ai piedi come una tuta di un viaggiatore dello spazio (o del tempo?) che poteva essere futuristica durante la mia infanzia: non lo avevo mai notato. È apparso davvero o è un effetto di quel filtro rétro che potrebbe aver aumentato la mia foto? E chi l’ha modificata?

Sono disorientato, lo siamo tutti. C’è chi si è già rassegnato, chi ha accolto con entusiasmo la novità, chi invece si sente come nella scena finale di un telefilm inglese della mia infanzia, di cui ricordo l’atmosfera inquietante e i volti dei protagonisti: sono seduti in un bar sulla strada, una scena che somiglia a un quadro che ho visto mille volte, solo che in questo caso la vista non è dall’esterno. Dalla radio proviene della musica jazz (sentita mille volte anche quella, ma non saprei indicarne il titolo né l’autore). C’è un’altra coppia al tavolino di fianco. La donna si alza e spiega (con una serenità che ricordo bene): «Questa è una trappola. Non siamo da nessuna parte, e sarà così per sempre».

Non c’è più il passato, non c’è più futuro: è questo l’eterno presente di cui abbiamo affidato a loro il compito di delineare i contorni, rassicuranti e stordenti. Ma pare ci sia qualcuno, da qualche parte, che ha conservato, su carta o a memoria, le versioni originali degli artefatti umani: non so se fidarmi, ma la prospettiva vale il tentativo, anche perché ormai sono vicino.

Sto raggiungendo l’Abbazia di Montecassino, mi hanno detto di chiedere di Frate Francis.

 

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lunedì 19 febbraio 2024

Always coming home

Quando ho provato a riprendere la mia attività di podcaster, l’occasione è stata una promettente serie di PrimeVideo, The Wilds, che – finché è durata – è risultata un ottimo epigono di Lost, non tanto e non solo per le ovvie similitudini della trama (non limitate all’insularità dell’ambientazione e alla presenza di un personaggio un po’ outcast che leggeva in spiaggia quello che trovava, e che giustificava il mantenimento del titolo Lostbooks), quanto per la ricchezza di livelli di lettura e di interpretazione. The Wilds, inoltre, ha messo sistematicamente a tema una dicotomia che in Lost era stata solo sfiorata, mentre quelle tra cooperazione e competizione, tra scienza e fede, tra destino e libero arbitrio sono state il leitmotiv di intere stagioni. La dicotomia è quella tra maschile e femminile, naturalmente, e – si scopre in particolare alla fine della prima stagione – su di essa si basa l’esperimento sociale della protagonista inizialmente occulta della serie. L’Alba di Eva, questo il nome del progetto, era mirato a dimostrare che è possibile una gynotopia – un’utopia al femminile, una ginecocrazia in cui le donne si autogovernano e affrontano le minacce dell’ambiente circostante in modo più efficace degli uomini. Un esperimento sociale con tanto di gruppo di controllo, il Tramonto di Adamo: un gruppo di ragazzi, su un’altra isola, ma con le stesse minacce: in breve tempo la loro comunità pare fare la fine del Signore delle Mosche, in un clima di sopraffazione e di paura (emotiva e fisica). Anche l’evento decisivo per la definitiva degenerazione in distopia dell’isola dei maschi è un evento fallocratico, quasi a dimostrare che tutte le distopie sono patriarcali.

Letture di evasione

La domanda che ci si potrebbe porre, astraendo da questo prodotto dopotutto minore dell’immaginario, è: le utopie sono tutte matriarcali? E perché abbiamo la sensazione che tutte le utopie, anche del lontano futuro, prevedano un ‘ritorno alla terra’?

È ad esempio il caso di Sempre la Valle, di Ursula K. Le Guin, alla quale dobbiamo peraltro tanta letteratura di fantascienza al contempo utopista, femminista e pacifista: il volume è strutturato come una raccolta di testi antropologici e etnografici sulla popolazione dei Kesh, che abita la California del nord in un futuro imprecisato post–collasso tecnologico. A corredo del volume, in Italia mai più ristampato dopo il 1986 da Mondadori, c’era anche una musicassetta contenente poesia e canti di quel popolo (oggi ascoltabili su Spotify), un po’ alla De Martino e al suo La Terra del rimorso. I Kesh sono “una società matrilineare, matrilocale, matricentrica; la vita è il mondo, l'ambiente, il femminile, è dono, scambio, movimento da e verso il centro, la vita è riflessione, ma è anche vissuto che non si può spiegare in parole, è mistero, respiro, suono, luce, oscurità, silenzio” (recensione di Maria Teresa Romiti sulla Rivista Anarchica dell’epoca). La loro nemesi sono i Condor, guerrieri e portatori di rovina e malattia: conquistatori che arrivano per soggiogare e adattare al loro modello di sviluppo chi invece ha saputo, come i Kesh, fiorire seguendo il ritmo della natura.

Regalo non a caso materno

Sviluppo contro fioritura: una società patriarcale costruisce, sviluppa, erige – una matriarcale accoglie, fiorisce, danza.

Una coincidenza significativa (ma ben sappiamo che tutto avviene per una ragione) mi ha portato a conoscere il lavoro di Marija Gimbutas (1921-1994), archeologa e linguista lituana: la cita nel suo più recente lavoro colei che mi invitò a parlare di Lost all’Università di Verona, ma è anche al centro delle riflessioni di uno dei podcast recenti più interessanti e avvincenti presentati da Il Post.

Ne L’invasione si parla, prima da un punto di vista linguistico, ma poi anche dal punto di vista genetico, di come in Europa siano arrivate le popolazioni che parlavano proto-indoeuropeo, portando narrazioni e modelli culturali totalmente diversi da quelli preesistenti. Le popolazioni che Gimbutas chiama dell’Europa Antica (fino al IV millennio a.C.) vivevano in società molto legate alla terra, con divinità femminili che racchiudevano caratteristiche di fertilità e ciclicità. Società non matriarcali, ma con tratti di non individualismo, accoglienza e non espansionismo che le resero candidate perfette per essere soppiantate dai popoli proto-indoeuropei (in realtà provenienti dalle steppe pontico-caspiche) della civiltà kurgan (o janma), che – avendo addomesticato il cavallo – si spostarono molto rapidamente fino all’estremo occidente d’Europa, con un modello di società individualista, conquistatrice, aggressiva – e con racconti (l’uccisore del serpente, i gemelli divini, e tante altre narrazioni che fanno da sostrato mitico a tutte le culture dell’Europa non più antica) in cui la componente maschile è decisamente prevalente.

Quando ti rendi conto che il nome kurgan non ti è nuovo

La realtà non è così netta, naturalmente: non è che i kurgan siano arrivati ‘tronfi di mascolinità’ (per citare Colin Renfrew, principale critico di Gimbutas, alla quale poi diede ampiamente ragione), armati, a cavallo, per razziare e conquistare i pacifici popoli antico-europei, agricoli e matriarcali. L’invasione che dà il titolo al podcast è avvenuta in tempi lunghi, attraverso mescolanze, scambi, sovrapposizioni e mutazioni che hanno preso molto tempo.

Però è piuttosto affascinante pensare che l’utopia che oggi cerchiamo nel lontano futuro prefigurato dalla fantascienza potrebbe essere stata realizzata nel lontano passato restituito dall’archeologia e dalla linguistica. E che quella che oggi chiamiamo distopia sia in realtà qualcosa in cui siamo immersi da cinquemila anni, probabilmente incapaci – culturalmente, linguisticamente, forse anche geneticamente – di pensare qualcosa che sia diverso dallo sviluppo, dall’affermazione di un potere a spese di un altro, dal controllo (centrale o diffuso poco importa) sulle manifestazioni delle persone e dei gruppi.

L’ossessione contemporanea per la misurazione, per quantificare, rendere confrontabili, valutare ogni fenomeno umano – foss’anche la sostenibilità ambientale dello sviluppo medesimo – ha radici lontanissime e probabilmente inestirpabili in quello che oggi chiamiamo Occidente. Un occidente (che non è evidentemente geografico, ma culturale, linguistico, economico-politico) che non ammette improduttività, non ammette tempi diversi da quelli pianificati, non ammette connessioni ‘altre’ rispetto a quelle progettate. Anche fenomeni profondamente umani come le arti figurative e la musica rischiano di rimanere ingabbiati in un modello di lavoro–produzione–consumo improntato alla definizione di obiettivi e alla loro misurazione, non già alla libera fioritura delle idee e degli artefatti conseguenti.

Mark Fisher, come di consueto illuminante, prima di andarsene, ha immaginato un Acid Communism che attingesse alla psichedelia (fenomeno non ingabbiabile per eccellenza, regno della fioritura incontrollata) e alla condivisione collettivista, per contrastare il realismo capitalista autoproclamatosi ineluttabile. Ma si tratta, anche in questo caso, di un modello che pretende di sostituirne un altro – che è senz’altro patriarcale e individualista – ma che non riusciamo a pensare diversamente da un'altra -αρχία.

All’inizio di Universal Mother, album del 1994 di Sinéad O’Connor, si sente la voce di Germaine Greer prospettare qualcosa di radicalmente alternativo, qualcosa che lei chiama cooperazione e attribuisce alle donne:

“I do think that women could make politics irrelevant by a kind of spontaneous cooperative action, the likes of which we have never seen – just so far from people’s ideas of state structure and viable social structure that it seems to them like total anarchy. And what it really is: very subtle forms of interrelation which do not follow some hierarchical pattern that is fundamentally patriarchal. The opposite of patriarchy is not matriarchy, but fraternity. And I think it’s women who are going to have to break the spiral of power and find the trick of cooperation”

Lost in effetti aveva parlato già di cooperazione, come alternativa alla competizione, nel primissimo dualismo Jack/Locke, allorché erano - da poco sull'Isola - il pastore contro il cacciatore. Ma si trattava di modelli entrambi patriarcali: risignificando il nesso tra cooperazione e femminile è possibile pensare a un’alternativa davvero vitale alla distopia (ecologica e sociale) che stiamo vivendo?

mercoledì 31 gennaio 2024

Dogs of War

Si discorre, in diverse sedi online, della deriva conflittuale che avrebbero preso i social network con la pandemia che aveva inizio ormai quattro anni fa. Una deriva in cui i fronti contrapposti su temi estemporanei (e spesso futili) si attaccano con violenza cieca e odio micidiale – a distanza, da dietro una tastiera, ma sempre più spesso con tracimazioni nel mondo reale. Ha senso – ci si chiede – lavorare all’interno dei social per un ritorno a un confronto più umano, a un linguaggio più gentile, alla creazione di comunità fertili e generative (e non sterili e distruttive)?

Mark, volevi dirci qualcosa?

Io temo che i social network siano ormai irrimediabilmente enshittificati, per dirla con Cory Doctorow: non tanto e non solo a causa del trauma pandemico, quanto per una scelta deliberata dei gestori delle piattaforme, finalizzata a spostare il valore generato (inizialmente a vantaggio dell’utenza) agli azionisti delle piattaforme medesime. Questa riallocazione è guidata dagli algoritmi, che ormai veicolano prioritariamente post divisivi sulle bacheche di chiunque, per generare flame e shitstorm che sono il traffico necessario per massimizzare il profitto per gli shareholder. Temo ormai non sia più sufficiente bannare o non nutrire i troll, perché i bias di conferma che ci portiamo tutti dentro sono sollecitati in maniera soverchiante: per un troll che banno, ne arrivano altri dieci – per un contatto che si mantiene rispettoso, altri dieci sbroccano – e alla fine sbrocca chiunque. Si potrebbe addirittura teorizzare che la trollificazione degli utenti sia l’epifenomeno della enshittification – e il modo che hanno gli algoritmi per generare plusvalore per chi lo estrae dalle piattaforme. La soluzione è abbandonare i social come Jaron Lanier raccomanda da anni (ben prima della pandemia)? Sarà una fuga nei boschi?

Sicuri di voler andare di là?

Proprio di recente, mentre parlavo – in un corso di formazione – dell’utilizzo delle piattaforme, mi è sfuggito il famigerato, thatcheriano, ‘non c’è alternativa’ a proposito della presenza sui social di un’impresa, un’iniziativa, un progetto. Non c’è alternativa, perché è da lì che ‘passa tutto’, e guai a usare un linguaggio diverso da quelli socialmente accettati (che sia il tranchant blastatore, che sia il melenso cuoricinabile), pena l’invisibilità e l’oblio. Ora, il TINA (there is no alternative) è la summa e la sintesi del realismo capitalista, di cui ci parla Mark Fisher. Se cediamo su questo punto, non possiamo lamentarci di nulla, perché vuol dire che abbiamo accettato come ineluttabili i meccanismi di lavoro-produzione-consumo del capitalismo compiuto. Non possiamo illuderci di ‘cambiare il sistema dall’interno’: gli algoritmi saranno sempre più forti, fintanto che li nutriamo, e ci trasformeremo in troll prima di accorgercene. L’algoritmo è il meta-troll che dobbiamo smettere di nutrire, e questo lo si può fare solo andandocene. La pandemia, in questo senso, ha esasperato la deriva bellicista dei social, proprio grazie al fatto che essi sono stati l’unico posto dove interagire quando non ci pareva ci fosse un altrove dove andarcene (in realtà c’era, sebbene online e non offline).

Comunque l'unico mio 30 e lode

Racconto spesso di uno dei due autori sovietici del libro più rigoroso e più complesso su cui ho studiato, uno di quei testi totalmente privi di chiacchiere (alle quali tendono di più gli scienziati americani) che trasudano socialismo reale. Ebbene, come noi comuni mortali non ricordiamo un’epoca in cui non sapevamo fare di conto, costui era noto per non ricordare un’epoca in cui non sapesse integrare - per dire quanto connaturata alla sua vita quotidiana fosse l’analisi matematica. E noi, riusciamo a ricordare com’era la vita prima dei social? Non è tanto tempo fa, eppure il web senza social network sembra un nebuloso, lontano passato, tanto la loro prevalenza sulle altre forme di interazione via internet è diventata imponente. La lenta cancellazione del futuro cui ha provveduto il realismo capitalista è stata seguita dalla cancellazione del passato ad opera degli algoritmi: viviamo in un eterno presente conflittuale, dove qualcuno di impersonale ci dice chi è il nemico del momento, su cui ci accaniamo creando branchi (che coincidono con le nostre bolle social), con riflessi pavloviani (bava alla bocca e tutto) tipici di specie diverse di mammiferi. E Orwell, a cui ormai si attribuisce qualunque aforisma, ci guarda da lontano scuotendo la testa.

Oggi tocca all'Estasia

Pensiamo di poter smettere quando vogliamo, come con una droga: ma non è così. Siamo talmente immersi in questo liquido amniotico artificiale che ci conforta e ci dona endorfine, che facciamo fatica a renderci conto di stare nutrendo noi la Matrice, e non viceversa. E smettiamo di desiderare qualcosa di diverso.


mercoledì 31 maggio 2023

I got chills

 Il 6 giugno, fra una settimana per chi scrive, esce per i tipi di Mariner Books BURN IT DOWN: Power, Complicity, and a Call for Change in Hollywood di Maureen Ryan, articolista di cultura pop per Vanity Fair. La rivista ha pubblicato ieri sul proprio sito un estratto dal libro, con il titolo Lost Illusions: The Untold Story of the Hit Show’s Poisonous Culture.

È il capitolo su Lost, e si è abbattuto come una bomba sul pubblico, in particolare quello costituito dagli appassionati della serie – e che alla serie hanno dedicato tempo, energie, spesso anche sforzo apologetico. È questo il motivo di un articolo che su questa Lavagna non era così ‘tempestivo’ da tredici anni, cioè dall’indomani del finale di serie. Tempestivo non vuol dire irriflessivo, ma è comunque necessario per fare ordine nei pensieri di chi, come chi scrive, ne sentirà ben presto di cotte e di crude sul tema, molto probabilmente da chi della serie sa poco o nulla e che vuole sfruttare l’onda dello scandalo che inevitabilmente il libro, e quel capitolo in anteprima, sta già generando.

Rimandiamo alla lettura del pezzo in questione per condividere la scoperta – francamente agghiacciante – delle dinamiche tossiche della writers' room di Lost, caratterizzate da razzismo, sessismo, bullismo e nonnismo sistematici, da parte di chi quella stanza guidava, e che – fraintendendo in modo più o meno consapevole il proprio ruolo manageriale – ha vessato, messo in fuga oppure direttamente licenziato chi in quella stanza operava (gli altri sceneggiatori, soprattutto le donne) e chi da quella stanza veniva dotato di copioni e linee narrative da interpretare (gli attori, soprattutto i non bianchi).

Stiamo parlando, ebbene sì, di Damon Lindelof e Carlton Cuse, i famigerati Darlton, da noi affettuosamente chiamati il Gatto e la Volpe. Mai avremmo pensato che il nomignolo fosse così appropriato, per una coppia di showrunner che molti spettatori considerano un vero e proprio oracolo della narrazione televisiva e che invece – poco interessa chi più chi meno – ha abusato del proprio potere e manipolato persone e situazioni al fine di consolidare la propria posizione. Non ci avremmo mai pensato perché, come anche l’autrice del volume e della requisitoria conviene, Lost ha un cuore pulsante, vivo, che parla di seconde possibilità e di redenzione, di comunità e di ricerca di senso – e se chi mette in moto quel cuore vive la negazione di quelle stesse pulsazioni, ebbene, non sappiamo più a cosa credere.

Oppure, banalmente, siamo vittima del disincanto e sviluppiamo uno sguardo ancora più cinico sulla realtà, soffocando una specie di senso di ingiustizia con considerazioni qualunquistiche tipo ‘è il mondo dello spettacolo, che cosa credevamo?’

Oppure ancora, cediamo a quella forma posticcia di reincanto che sono le fantasie di complotto e ci chiediamo – con l’aria di quelli a cui non la si fa – perché queste notizie escono proprio adesso? Cui prodest? Sarà un caso che sia in corso uno sciopero degli sceneggiatori e questa bomba non faccia altro che screditare quelli (come Damon Lindelof) che oggi sono ai picchetti?

Una cosa non è in discussione: i fatti. Perché comunque ci sono nomi e cognomi: sceneggiatori che hanno preferito restare anonimi e nomi ‘pesanti’ come quello di Javier Grillo-Marxuach (a cui peraltro dobbiamo pressoché interamente la Lost Experience), attori di cui si immaginano le generalità e figure identificate fin da subito come Harold Perrineau. Che raccontano una storia davvero sgradevole, che fa l’effetto delle riprese con telecamera nascosta nelle caserme o nelle case di qualche confraternita universitaria, durante i riti di iniziazione delle matricole. I brividi, appunto.

Ci sono anche le dichiarazioni dei due principali imputati: dirette quelle di Damon Lindelof, via agente quelle di Carlton Cuse; che ammettono un fallimento quelle del primo, che contestano la veridicità delle testimonianze quelle del secondo; forse a indicare una differenza di responsabilità tra l’uno e l’altro, chissà. Il problema è che comunque, anche se Damon ammette le proprie colpe, c’è al fondo una falsa credenza: quella secondo cui talento e umanità siano mutualmente esclusivi, per cui essere un genio comporta in qualche modo essere un mostro. E l’omertà diventa un requisito fondamentale per aspirare ai livelli più alti (del processo creativo, in questo caso).

Ci si rimane male, anche solo a pensare a quelli che ci diranno ‘hai visto che gente hai difeso in tutti questi anni?’. Ci si chiede, col senno di poi, se in The Leftovers, in Watchmen e nel recentissimo (e straordinario) Mrs. Davis Damon Lindelof abbia voluto espiare in qualche modo i comportamenti riprovevoli messi in atto a partire da quasi vent’anni fa, o se – per crudele ironia – anche quelle writers' room siano state pervase dalla stessa tossicità, pur trattando temi così umanamente sfidanti.

Ci si chiede anche l’effetto che una cosa del genere – che ha potenzialmente la portata di #MeToo – possa avere sul business, oltre che sulle carriere delle persone coinvolte. È comunque qualcosa su cui non si può applicare il Let Go, Move On di lostiana memoria, ma da cui si può partire per migliorare ambienti, comportamenti e modelli dell’industria dell’intrattenimento. Perché cose belle come Lost continuino ad essere prodotte, ma da processi più umani.

lunedì 17 gennaio 2022

Born to run

La cifra esistenziale di questo passaggio al 2022, cavalcando l’ennesima ondata di Covid-19, è la fuga.

... e quando si parla di fuga, viene in mente lei

Fuga da cosa e, soprattutto, verso cosa? Rispetto agli effetti della pandemia sull’economia e sul lavoro, si osservano due direttrici principali, corrispondenti a due macrocategorie socio-economiche, sommariamente definibili come privilegiati e sfruttati.

I privilegiati, i big player del tardo capitalismo (individui, società, governi) stanno preparando la fuga da un pianeta ormai inservibile – nel senso di non più sfruttabile, da cui è impossibile estrarre ulteriore plusvalore – a causa dei cambiamenti climatici, dell’esaurimento delle risorse, della stessa pandemia (che rende difficile il lavoro e quindi la produzione, e quindi il consumo e quindi la generazione di profitti). Non è un caso che questi ultimi due anni abbiano visto una crescita così spedita dell’astronautica privata: è così fantascientifico pensare che i ‘ricconi’ che investono nel viaggio spaziale non si stiano solo togliendo uno sfizio turistico, ma stiano piuttosto preparandosi una via di fuga (letterale) dalla Terra? A questo proposito, il must-see-movie Netflix di fine 2021, Don’t Look Up (niente di particolarmente epocale, probabilmente archiviabile in fretta, buono per effimere polemiche social utili solo a chi ha finto di denunciarle) dice una cosa interessante, con la fuga finale dei duemila ‘pezzi grossi’ che si conclude – farsescamente, forse in modo un po’ banale – su un altro pianeta.

Non merita nemmeno uno spoiler alert? No

C’è poi chi la fuga la prepara – invece che verso un altro luogo del mondo fisico – verso un diverso piano di realtà, in direzione di quel metaverso che – lungi dall’essere una idea recente, basta leggere Snow Crash di Neal Stephenson, che è del 1992 – consente ai più misantropi dei big player di prosperare senza aver bisogno di un rapporto fisico con gli altri esseri viventi. Peraltro, il più grave degli effetti della pandemia sulle nuove generazioni è proprio quello di trasformarne una fetta enorme in hikikomori che non aspirano nemmeno più retoricamente al rapporto umano diretto, e quindi si adeguano volentieri alla dematerializzazione dei contatti – incidentalmente realizzando la profezia del Michel Houellebecq de Le particelle elementari e de La possibilità di un’isola, già qui evocato più volte a proposito della natura dell’Isola di Lost e delle aspirazioni degli Altri. Chi scrive ipotizzava, all’epoca della terza stagione di Lost, che gli Altri potessero essere artefici di un’analoga fuga verso un diverso piano (informatico, virtuale) di realtà, per staccarsi dal mediocre mondo materiale e sperimentare nuove forme di convivenza libere dal fardello del corpo fisico. I nessi, da un lato, con l’oggettivismo di Ayn Rand (specie quella di The Fountainhead), a sua volta ispiratrice del background del videogioco Bioshock, e, dall’altro, con il postumanesimo letterario e cinematografico, ci parevano abbastanza evidenti. Oggi quel podcast suona sicuramente datato rispetto a Lost, ma in qualche modo profetico rispetto alle evoluzioni sociali immaginate in epoche non sospette.

Sono un quasi anagramma di Ayn Rand e vi invito a una utopia che finirà male 

Anche gli sfruttati stanno pensando alla fuga, però. Una fuga dalle dinamiche sociali ed economiche che li rendono sfruttati, a partire dal lavoro. Almeno in Italia, l’aver preferito il green pass all’obbligo vaccinale tradisce la sudditanza del governo agli interessi del grande capitale industriale: viene ribaltata sul lavoratore la responsabilità di sottrarsi al ciclo produttivo, ma viene preservata la possibilità ai ‘padroni del vapore’ di far lavorare i fattori produttivi in barba ai rischi sanitari. I toni marxiani non suonino fuori tempo e fuori luogo: si sta osservando un inasprimento della conflittualità sociale, ma con la frammentazione, lo smembramento della classe subalterna, spaccata dalle parole d’ordine social, per cui si fa di tutte le voci critiche (sebbene articolate e complesse) un fascio di negazionisti e no-vax. Questo stesso capoverso, se letto con la superficialità imposta dai social network, potrebbe farne passare l'estensore per un no-vax, quando dovrebbe essere evidente che la critica è alla gestione politica della pandemia e non all'efficacia dei vaccini. Se a questo si aggiunge che molte voci storicamente critiche abboccano alla dialettica social e si prestano a un dibattito che tale non è – non si capisce se per senilità o ricerca di un nuovo posizionamento o, peggio, calcolo per trovare una via di fuga – anche chi dovrebbe risultare voce oppositiva fa il gioco della voce del padrone e polverizza la coscienza di classe. Quindi la pandemia ha reso difficile ma non impossibile lavorare, ha eroso le tutele con il ricatto del ‘se non vuoi lavorare ho qui il rimpiazzo’ ma chi vi si sottrae è additato come minimo come untore: che via di fuga c’è?

Riesco a immaginare più la fine del mondo, sì
che la fine della differenza sociale
Marra feat. Mark Fisher

C’è chi si dimette e smette di lavorare, c’è chi smette di idolatrare il lavoro e preferisce la frugalità in attesa del crollo del sistema – sulle cui macerie può ricostruire. C’è chi propone le Comunità Autonome Operative per la Sopravvivenza (l’acronimo CAOS non è evidentemente casuale), come forma di rassegnazione all’inevitabile conclusione di questo ciclo: una rassegnazione che non è passiva ma che punta ad accelerare questa fine attraverso l’abbandono del lavoro e il ritiro in comunità votate all’autosussistenza. Il contrario dell’accelerazionismo alla Nick Land, una pratica gnostica che punta a togliere gli argini al fallimento del sistema capitalistico, smettendo di fare i katéchon dei tempi ultimi. Una delle voci critiche (e oggi non più tali) di cui sopra è ricordato anche per aver chiesto nel 1993 a Giovanni Paolo II di smettere di fare il katéchon (cioè di fare da freno alla venuta dell’Anticristo e quindi all’Apocalisse). Ebbene, col senno di poi, questo appello non aveva a che fare con l’escatologia, ma forse proprio con il destino della società capitalistica: Giovanni Paolo II ha fatto (scientemente? Inconsapevolmente? Probabilmente il suo essere polacco in una certa epoca storica ha contribuito) da freno alla caduta del capitalismo dopo aver accelerato quella del socialismo reale. E lo ha fatto contribuendo in maniera decisiva all’idolatria del lavoro attraverso il suo contributo alla Dottrina sociale della Chiesa: nella Laborem exercens (1981) scrive

Il lavoro è un bene dell'uomo - è un bene della sua umanità -, perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza sé stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, «diventa più uomo». (LE 9)

Il lavoro come qualcosa che fa diventare l’uomo ‘più uomo’, non più il ‘male necessario’ a cui la persona è condannata da Dio quando la caccia dall’Eden. E quindi chi non lavora, non produce, non trasforma la natura, è meno uomo? Quanto senso di colpa su chi non vuole lavorare viene proiettato da questo approccio – che è cristiano, ma è profondamente radicato nello spirito del capitalismo (non c’è bisogno di evocare Max Weber per rendersi conto che questo concetto è più protestante che cattolico)?

Togliere il freno alla caduta del capitalismo passa per la fuga dal lavoro, ed è la via che soprattutto gli sfruttati (o comunque quelli che tali si percepiscono, in quanto perennemente esclusi dai privilegi) stanno prendendo in numero sempre maggiore. È la Great Resignation che sta facendo ‘fuggire nei boschi’ tanti novelli Thoreau – paradossalmente è anche una fuga dalla gabbia di Skinner dei social (ormai sempre più canili di Pavlov), quei social che assomigliano al modello (Dharma-like) di Walden 2, ispirato – ma abbiamo già visto in modo quanto fallace – dal primo Walden.

domenica 26 settembre 2021

We must not fear

Se parlare qui di Dune (il romanzo, il film di Villeneuve, ma anche quello – mancato – di Jodorowsky e quello – inclassificabile – di Lynch) può apparire fuori luogo (un blog legato a Lost) e fuori tempo (a parte la possibile tempestività rispetto all’uscita dell’opera di Villeneuve), ricordiamoci che only fools are enslaved by time and space e prendiamoci un pizzico di spezia per viaggiare tra i mondi possibili.

Il primo romanzo del ciclo di Dune (la cui sola prima metà è visibile in questi giorni al cinema – e va vista e sentita al cinema, poche storie) esce nel 1965 ed è un’opera seminale in molte direzioni, in gran parte colte però solo da chi lo ha letto. Al di là dell’influenza diretta su vari universi narrativi fantastici (Star Wars in primis), è un’opera che tratta tematiche filosofiche, politiche e anche ecologiche molto attuali, con una preveggenza che ha dell’inquietante. Sicuramente deve molto, come tutte le narrazioni mitologiche, ad archetipi antichissimi – primo fra tutti il tema messianico – ma li rielabora con una originalità e una profondità rare, immergendoli in un dettagliatissimo mondo futuro (attenzione, è il 10191 dalla fondazione della Gilda Spaziale, a sua volta collocabile tra il 12000 e il 14000 dopo Cristo: il futuro di Dune è lontano oltre ventimila anni) che per accuratezza ha come solo precedente la Terra di Mezzo.

Meriterebbe una riflessione il fatto che il Professor Tolkien non apprezzasse affatto Dune (grazie a Glorfindel per la dritta), cosa che per chi scrive è risultata destabilizzante quasi quanto il fatto che Mark Fisher non apprezzasse Lost, ma sarà per un’altra volta.

Lo stesso Lost deve più di qualcosa a Dune, in particolare nella bellissima puntata 4x09, The Shape of Things to Come, in cui (come cercavo di raccontare in un vecchio Lostbooks) Ben Linus si ritrova a impersonare una sorta di Paul Atreides per l’Isola/Arrakis con tanto di evocazione del Fumo Nero/Shai-Hulud.

C’è da sperare davvero nel successo della pellicola di Villeneuve, sia perché ciò consentirebbe il proseguimento della narrazione (oltre alla serie sulle Bene Gesserit, almeno un altro film per Dune, un altro ancora per Messia di Dune?), sia perché indurrebbe molti a leggere finalmente Frank Herbert – un po’ come accadde per Tolkien vent’anni fa (venti anni?!) dopo la visione de La Compagnia dell’Anello.

Ma perché Dune parla così bene al nostro oggi? Sicuramente la messa in scena dello sfruttamento delle risorse naturali di un pianeta, dell’oppressione di popolazioni autoctone e del loro desiderio di riscatto, delle dispute tra potentati economici e dell’uso politico di credenze filosofiche e religiose, dello spregio per la vita umana a favore del profitto, ebbene, è qualcosa che ci tocca da vicino – e Villeneuve lo fa con fedeltà alla lettera del romanzo, che a sua volta descrive dinamiche presenti da sempre nella storia umana (e che negli anni Sessanta, a un osservatore attento come Herbert, già mostravano le possibili derive che oggi vediamo disgregare il tessuto comunitario delle nostre società). Mondi possibili che – collocati nel lontano futuro – descrivono mirabilmente il nostro angosciante presente.

Facciamo due conti

C’è però un tema che fa da sfondo al romanzo, ma che è appena sfiorato dal film in questi giorni in sala, che dice qualcosa di più sull’oggi e che si colloca tra il religioso e il tecnologico. È quello delle ‘macchine pensanti’, contro cui – oltre diecimila anni prima della storia di Paul Atreides – si scatena il Jihad Butleriano (palesemente un riferimento a Erewhon di Samuel Butler, distopia del 1872), una rivolta degli esseri umani, già diffusi su molti mondi, contro le intelligenze artificiali diventate ormai troppo potenti. In Dune, come si nota bene anche dal design delle produzioni cinematografiche (più barocco quello di Lynch, quasi steampunk quello di Villeneuve), non ci sono computer, la tecnologia è molto meccanica e per nulla informatica: anche il viaggio spaziale avviene per la combinazione di conoscenze fisiche e prassi quasi mistiche legate all’uso della Spezia. La computazione rapida non è affidata alle macchine ma ai Mentat, persone appositamente addestrate per fare a meno di intelligenze artificiali (non nominati come tali, se ne vedono almeno due nel film di Villeneuve, uno che opera per gli Atreides e uno per gli Harkonnen). La stessa religione dell’Impero, coagulata nella Bibbia Cattolica Orangista (testo sacro sincretistico), contiene il comandamento Non costruirai una macchina a somiglianza della mente di un uomo.

Sulla Terra di oggi, quanto affidiamo alle ‘macchine pensanti’? Quanto sono determinanti gli algoritmi per le nostre scelte quotidiane e per la formazione di comprensione e giudizio rispetto ai fatti del mondo? Quanto siamo davvero liberi di prendere una strada piuttosto di un’altra, dalla più banale delle scelte di acquisto al più complesso dilemma etico? Quanto le intelligenze artificiali ci allontanano o ci avvicinano – senza che ce ne rendiamo conto, anzi magari gratificati dalla non-scelta – a persone delle nostre cerchie sociali (non solo social, beninteso)? Quanto siamo capaci di immaginare mo(n)di diversi da quelli a cui siamo abituati, senza che la nostra immaginazione sia predeterminata o condizionata da dispositivi tecnologici?

Non osare staccare lo sguardo da quello smartphone

Il comandamento supremo della Bibbia Cattolica Orangista è Non sfigurare la tua anima, mentre la Litania Bene Gesserit recita Non devo aver paura, la paura uccide la mente, la paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale (è quella che tiene in vita Paul durante la prova del Gom Jabbar). Le macchine pensanti (leggi: gli algoritmi a cui affidiamo le nostre scelte, i nostri gusti, la nostra stessa capacità di desiderare – pensiamoci: desiderio, de sidera, nostalgia delle stelle) fanno leva sulla paura e sfigurano l’anima, le fanno perdere identità, annullano completamente la persona per renderla un flusso manipolabile di dati, un avatar da posizionare in una scacchiera. Pensiamo alla questione divisiva per eccellenza di questi nostri tempi: quanto viene invocata – a comando, paradossalmente – la libertà? Quanto viene strumentalizzata la paura? Quanta responsabilità hanno gli algoritmi nel creare bolle, fronti contrapposti, frantumazione dei legami comunitari? A proposito di responsabilità, come è possibile fare in modo che questi soggetti non umani rispondano effettivamente di quanto operano in una società?

È il tempo di un Jihad Butleriano? O forse solo di una grande rivolta per tornare a fare le nostre scelte liberi da condizionamenti deresponsabilizzanti? Rivolta, rivolgimento, rivoluzione – non ripresa, ripartenza, riproposizione del già visto, già noto, già pensato (da altri).

Le playlist autocompilate uccidono la mente. Non dobbiamo avere paura.

mercoledì 4 agosto 2021

2004 - 2010 - 2021 - Continuano e si accelerano le tappe del nostro viaggio nel tempo

La recente uscita al cinema di “Old” per la regia di M. Night Shyamalan non può certo lasciare indifferenti i lettori della Lavagna. Perché? Cercherò di spiegarlo (brevemente) a partire da tre essenziali (ma corpose) premesse.


1) Trama e note su regia e cast di “Old” - Tredici persone si ritrovano (solo in apparenza casualmente) su una misteriosa spiaggia per trascorrere le loro vacanze. Ben presto, però, nell’isola si manifesta qualcosa di innaturale che fa sì che qualsiasi forma di vita invecchi rapidamente.

Il regista è anche il sceneggiatore del film, film che prende il la da “Sandcastle”, la graphic novel creata dalla penna di Pierre Oscar Levy e di Frederik Peeters.

Shyamalan traspone fedelmente la vicenda sul grande schermo nel cuore del film, apportando con la propria inventiva i necessari adattamenti nella premessa e nel finale, dando così una propria precisa cifra (un'analisi ironica, critica e profondamente filosofica della società, intuendone la "medicalizzazione" e la "de-presentificazione" ben prima del Covid come spiega bene Roy Menarini) a tutta la vicenda.

“Old” vede come protagonisti Gael Garcia Bernal (star di Mozart in the Jungle), Vicky Krieps (protagonista de Il filo nascosto), Alex Wolff, Thomasin McKenzie, Eliza Scanlen, Rufus Sewell, Embeth Davidtz, Aaron Pierre, Abbey Lee, Nikki Amuka-Bird, Emun Elliott e Ken Leung (il Miles Straume di Lost) ed è prodotto dallo stesso Shyamalan.


2) Il cinema di Shyamalan, un cinema sempre meno capito perché sempre più confrontato solo con i gusti del pubblico – Il noto regista ha da anni la possibilità di girare i suoi film sceneggiandoli e producendoli da sé e crede fortemente nel registro fiabesco per veicolare i suoi personali e sempre più incompresi o forse poco apprezzati/condivisi messaggi sulle prospettive del nostro mondo attuale. Questo fa sì che una fetta crescente del pubblico si sia legato indissolubilmente ai capolavori del passato, vivendo con insofferenza la libertà e la creatività che il regista si è sempre di più ritagliato.

Cosa aspettarsi da un film che parte come Fantasy Island e man mano che procede assimila in sé deboli eco dei momenti meno convincenti di Lost? Probabilmente nulla di buono, ma a scrivere e dirigere Old c’è, uno al quale il beneficio del dubbio viene sempre concesso anche nel momento in cui si è consapevoli che il suo genio è stato spesso controbilanciato da scelte cinematografiche di dubbio gusto […] The Visit e soprattutto il successivo Split fanno però nuovamente ben sperare che quella macchina oliatissima fedele al credo di un horror da briciole di pane disseminate possa realmente tornare ai fasti di un tempo. Glass e il suo (forzato) universo narrativo scricchiola ed è un nì, chiuso nei riverberi di un passato che adombra il presente e che con Old fa cadere nuovamente nello sconforto chi sperava un ritorno ai vecchi fasti.

http://www.anonimacinefili.it/2021/07/21/old-shyamalan-spiegazione-significato-finale/


3) Non tutto va letto in chiave Covid, d’accordo. Ma l’ultimo film di M. Night Shyamalan, piaccia o no, ci rimette di fronte al loop che abbiamo vissuto per un anno (anzi, due). E in cui siamo dentro ancora - (Mattia Carzaniga)

La pandemia ha fortemente complicato la lavorazione del film, per cui molte delle critiche sul valore strettamente cinematografico non sono campate per aria, a partire dalla direzione degli attori, ma sicuramente ha impresso alla pellicola un surplus di valore di significato (semantico) non trascurabile: basti solo pensare a come Shyamalan lavora sui bambini, privati dell'infanzia e costretti a crescere in un tempo a cui non è quasi più possibile dare un valore. Molto bello, a mio parere, il modo in cui l’amicizia tra bambini, rivesta un ruolo chiave nel film, in quanto fonte di salvezza.

Ci sono infine (disseminati qua e là ma facilmente riconoscibili) una serie di pseudo/para “easter egg” molto gustosi dedicati al cinema (il quiz cinematografico delirante, il binocolo e l’improvvisa apparizione del “regista”... che a Faramir potrebbe anche ricordare qualcos’altro di molto misterioso legato a una vecchia foto) e al Covid (il dottore del quale è bene non fidarsi, il medicinale dal nome doppio) che danno al film uno spessore ironico importante per controbilanciare la tensione horror.


In breve, quindi, consiglio “Old” ai lettori della Lavagna perché i temi trattati nel film sono molto vicini a quelli di "Lost" e ne sono quasi una naturale evoluzione/aggiornamento alla luce della recente pandemia, con tanto di esplicita e trasparentissima citazione proprio all’inizio del disvelamento finale.

In conclusione, vedere questo film, che come "Lost" sa giostrare sui personaggi e sul loro vissuto, sa giocare (certamente non sempre in modo perfetto) con gli stessi elementi fondamentali (la spiaggia, la fuga, il tempo, la necessità/difficoltà/impossibilità di cooperare) non può che ridarci fiducia in quello che in fin dei conti cerchiamo su questa Lavagna nelle note di chi scrive e nell’affetto di chi legge: la bellezza di raccontare un presente sempre più incomprensibile (o forse non accettato), cercando magari una nuova epica e una nuova mitologia attraverso storie come quella di "Lost" o di "Old" che, pur tra mille imperfezioni e approssimazioni, sappiano cogliere e dare emozione e voce (per i più ottimisti anche senso) al nostro smarrimento nel nostro quotidiano viaggio nel tempo.


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