lunedì 23 maggio 2011

Time for letting go

E' passato un anno: sembra ieri - o forse era ieri. Un viaggio si concludeva, che ci aveva visto condividere con persone prima ignote, alla fine veri amici - anche se magari nemmeno conosciuti di persona - un tratto importante della nostra vita. Solo un telefilm? Forse. Sicuramente una metafora perfetta della vita di molti di noi, che si sono riconosciuti in quei naufraghi - così stereotipati, così archetipici, così veri - e che con loro, ma in una dimensione parallela (convenzionalmente detta mondo reale), hanno trascorso sei anni, imparando a ri-conoscersi, a dare un nome a quelli che prima erano altri, a vivere insieme per non morire soli. Noi siamo stati il flash-sideways dei naufraghi di Lost, metanarrativamente siamo loro, che ancora oggi (nel futuro al di là del cerchio narrativo ormai concluso) si ri-trovano, in uno spazio buio su cui si apre una finestra di luce (la porta del tempio, il monitor di questo pc) per provare a passare oltre. Let go. Move on. Per chi scrive è dura: la tentazione è quella di Ben, quella di restare ancora un po'.
E' stata un'esperienza fondativa: di un nuovo modo di fruire la televisione, di un modo nuovo di partecipare attraverso la rete, di un tipo nuovo di comunità. Ogni minuto speso con i cultori/creatori di questo mito post-postmoderno è valso la pena di essere vissuto: con quelli con cui si è discusso, anche aspramente; con quelli con cui si è collaborato, anche se solo a distanza; con quelli che ci sono sempre stati, anche se magari in silenzio; con quelli che se ne sono andati troppo presto, in un senso troppo reale. Le battute su un blog non riescono ad esprimere le dimensioni della gratitudine per tutto ciò, se è vero che in un anno non sono riuscito a scriverlo, un post così. Vorrei restare ancora un po' da questa parte, davvero. Ma se tutti la attraversate, quella porta, beh... allora forse ce la faccio anch'io.

domenica 1 maggio 2011

Man of ice, man of fire

La recente polemica a distanza tra George R. R. Martin , autore della saga fantasy A Song of Ice and Fire, e Damon Lindelof, showrunner di Lost assieme a Carlton Cuse, ci ispira delle riflessioni - alcune nostalgiche, alcune polemiche, alcune di metodo. Non è un caso - nulla avviene a caso - che questa sia più o meno l'epoca in cui l'anno scorso andava in onda la faida tra spettatori fedeli e detrattori di Lost, se è lecito semplificare così la disputa che scoppiò definitivamente all'indomani di Across the sea. E chi scrive prova una nostalgia struggente verso una primavera - varie primavere - in cui ci si incontrava e scontrava sui forum, sui temi di un telefilm che almeno per un bel po' non vedrà eguale e che oggi ci lascia orfani a postare su un blog che non è ancora riuscito a passare oltre.
Faida c'è stata, e anche in questo caso in modalità asincrona e per via informatica, anche tra l'ormai leggendario autore dei romanzi, dal primo dei quali - A Game of Thrones - è in corso la trasposizione televisiva (di pregevolissima fattura, a partire dal casting) targata HBO, e il nostro Damon, che si è visibilmente risentito di alcuni poco lusinghieri apprezzamenti di Martin sul finale della serie - apprezzamenti che, almeno nella trascrizione giornalistica, non denotano una lettura particolarmente approfondita da parte di Martin medesimo, che anzi pare echeggiare le posizioni più superficiali tra quelle di chi è rimasto deluso da The End.
Il risentimento, che poi ha sortito una micidiale serie di tweet dall'account di Lindelof - alcuni dei quali decisamente divertenti - si riferisce soprattutto al fatto che Martin abbia sostenuto di non voler tirar via un altro Lost quando si tratterà di concludere la sua saga. Ora, un'affermazione del genere farebbe irritare chiunque, soprattutto perché - status di culto di Lost a parte - rischia di diventare un modo di dire, anche grazie a una paternità così autorevole.
Ma in realtà Lindelof è vieppiù legittimato a indignarsi e replicare in quanto G.R.R.M. parrebbe aver contravvenuto alla regola d’oro (di deontologia, ma soprattutto di decenza) secondo cui un narratore (regista, scrittore, fumettista…) non dovrebbe criticare un suo pari sul come narra. Nessuno lo fa, nemmeno Stephen King si permette di dire all’ultimo dei parvenu dell’orrore che avrebbe potuto fare di meglio. Perché è ovvio che avrebbe potuto fare di meglio, ma si espone al rischio che l’interessato gli risponda, a buon diritto, di provarci.
Ma soprattutto, e l'interessato questo lo ha ben esposto in un'intervista a Entertainment Weekly, Lost e le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco sono due narrazioni ben diverse, essendo caratterizzata la prima - come anche Battlestar Galactica, per dire - dall'interazione dei personaggi con un nucleo fondante di mistero, mentre la seconda ruota attorno all'interazione dei personaggi tra loro ed un contesto storico-sociale (sebbene immaginario). Pertanto, la conclusione di Lost ha a che fare con questo mistero (ed è, chi è andato al di là della superficie lo ha colto, un mistero di senso), ed è una conclusione contemporaneamente circolare e lineare, ciclica e teleologica. La conclusione delle Cronache (se e quando Martin ci arriverà) non potrà che essere lineare, perché non ha a che fare con un mistero, bensì con chi vince e chi perde, con chi vive e chi muore, chi regna e chi è assoggettato. Volendo estremizzare, Lost sta alle Cronache come un racconto mitologico sta ad un romanzo storico.
Forme narrative diverse, che solo a determinate condizioni possono essere paragonate: e purtroppo, che in nessun modo possono colmare l'una l'assenza dell'altra.

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